23 agosto 2017

Libia, l'inferno dei centri-lager dove sono rinchiusi i migranti

A Tripoli con i migranti respinti dall'Europa fra torture, umiliazioni e fame. Violenze dopo il salvataggio in mare, poi il trasferimento nei centri d’accoglienza: «I poliziotti ci portano via tutto. Ma ritenteremo il nostro viaggio»

Alcuni migranti provenienti dall'Africa sub-sahariana tratti in salvo dalla Guardia costiera libica. Secondo un recente rapporto di Oxfam l’80% delle persone passate dalla Libia hanno denunciato di avere subito violenze e torture

Nei centri libici sono ospitate più persone rispetto alla loro capacità. In quello di Tariq al-Siqqa, a Tripoli, sono 1400 in uno spazio destinato a quattrocento

Che fine fanno quelli che rimandiamo indietro, il popolo dei barconi che le motovedette libiche «salvano» prima che entrino nel nostro mare: quelli per cui inizia il vero viaggio, che è al di fuori di se stessi? I migranti che evaporano nel nostro limbo di disattenzione, che non sono per noi più migranti, un figliol prodigo senza la casa in cui ritornare? A quale destino li consegniamo, noi che abbiamo cessato di dare?

È proprio in Libia che bisogna cercare una risposta. Non è proprio il mio mestiere discutere se una politica è efficace o no, è semplicemente raccontare quali sono le conseguenze della politica sugli esseri umani. Alla fine di tutto, ogni volta, c’è sempre una scelta morale. Poi deciderete, ma dovete sapere qual è il prezzo che fate pagare. Non potrete dire: ignoravo tutto, credevo, mi avevano detto.

Incontrare i migranti salvati. È facile verificare. I centri libici per i clandestini, dunque. È lì che si sente l’odore dei poveri.

Cosa è l’odore dei poveri? È un misto di sudore sudiciume, immondizia, urina, secrezioni, catarri, cibi guasti o di poco pregio, vestiti usati e riusati senza lavarli; è il trasudare della paura e di una dolente pazienza di vivere. Forse il problema è che coloro che decidono il destino dei migranti l’odore dei poveri non lo hanno mai sentito, vengono, parlano con i ministri in belle sale refrigerate.

I centri per l’immigrazione clandestina (che ironia in un Paese, la Libia, che per quaranta anni ha fatto svolgere tutti i lavori duri a milioni di clandestini schiavi) sono sigle e numeri.

Sigle e numeri. Questi uomini e donne e ragazzi sono detenuti, prigionieri. Non possono uscire, non possono comunicare con le famiglie. Chiedono: «Che reato ho commesso? Ho lavorato qui per anni, ho pagato dei libici per traversare il mare»

Tripoli scorre veloce, le cuspidi dei minareti si alternano ai relitti in cemento armato della fallita Manhattan del Colonnello, simboli spenti delle sue follie, che innalzano al cielo niente più che grandi segni grigi. In fondo ai vicoli, prigioniere tra case slabbrate di otto piani, montagne di immondizia che nessuno raccoglie. L’odore della strada con il suo catrame ribollente. A tratti, isolato, sale dal mare il richiamo di una sirena, lontana, solitaria e come soffocata. File silenziose fino a notte attendono, inutilmente, di poter prelevare piccole somme ai distributori delle banche. Non c’è denaro, se non per alcuni.

Il centro (di detenzione dei migranti) è in una strada che i libici chiamano «la ferrovia» perché qui al tempo degli italiani passava il treno, la villa-palazzo di Balbo è a un passo. Ed è lì come una sorta di vetrina, il ministero dell’Interno la usa per mostrare i risultati dell’efficace caccia ai migranti. Ci portano i giornalisti e i controllori puntigliosi delle organizzazioni umanitarie del Nord Europa, principali donatori. Organizzano anche partite di calcetto tra i detenuti: «Se viene subito si gioca Marocco contro Kenya». In realtà erano migranti della Costa d’Avorio ma, si sa, sono tutti «negri» al di sotto del Sahara.

Dentro sono in 1400 (lo spazio è per 400 persone), gli uomini da una parte le donne dall'altra, si parlano urlando attraverso le sbarre. In nove mesi 3149 rimpatriati a spese delle Nazioni Unite, 244 «a spese loro», 71 hanno ottenuto il diritto di asilo, 6715 sono stati distribuiti in altri centri.

Decine di migranti fuori dal centro di Tajoura, alcuni stringono ancora il salvagente usato a bordo dei barconi
«Abbiamo perso tutto»
La prima cosa che incontri è gettato in un angolo, il mucchio degli stracci donati per rivestire i migranti. I guardiani frugano, mettono da parte le cose migliori, una camicia, giubbe militari. A fianco un vecchio camion frigorifero, sequestrato. Dentro hanno trovato dieci migranti morti durante la traversata del deserto, dal Sud. Poi c’è la gabbia, un cortile coperto da una tettoia metallica, a sinistra si aprono le porte di alcuni stanzoni, le celle.

La prima impressione è quella di entrare in una serra umida e afosa, dal pavimento esala, insopportabile, un vapore caldo come il sudore dai pori di un animale. Non ci sono letti o brande, non ci sarebbe posto, solo stuoie sudice, lembi di plastica, pezzi di cartone. I corpi, la notte quando le porte di ferro sono chiuse da grossi lucchetti, si infilano l’uno accanto all'altro per poter restare sdraiati. Se cerchi di spostarti cammini su quella spazzatura umana. Centinaia di volti e di corpi seminudi per il calore come uno strano raccoglimento. Stivati l’uno accanto all'altro, stesi o seduti, i migranti: corrosi, stremati, spolpati, distorti, bolsi. Si vedono braccia riverse, gambe abbandonate, non nel modo di chi riposa o dorme ma di chi stramazza a terra in seguito a una bastonatura, esanime. E visi, visi neri e chiari quasi tutti di giovani, su cui sono dipinte tutte le sfumature della estenuazione.

Quando vai lì ti chiudono in mezzo, dolcemente, come una mano. Si ascoltano voci stordite dal caldo e dall'odore che azzanna, non sono parole, discorsi singoli, è un mormorio che sale dalla terra. Non sono uomini a parlare, è la disperazione, l’assenza di speranza.

«Ci hanno portato via tutto i poliziotti libici. Denaro, telefonini, vestiti. Non possiamo dire alle nostre famiglie dove siamo, che siamo ancora vivi»

I guardiani assicurano che tutto è custodito con cura e sarà restituito al momento dell’espulsione.

Il sogno dell’Europa
Qualcuno avanza, spinto dagli altri che fanno largo, a mostrare le piaghe: c’è un giovane che ha gambe e braccia come scorticate dalla carta vetro: la benzina, la benzina sulla nave. Un altro più maturo mostra la spalla: fuori posto, staccata dal corpo. A quelli rosi dalla febbre i compagni hanno lasciato gli spazi lungo i muri, perché possano appoggiare il busto alla parete. «Qui non ci bastonano più ma dove eravamo prima, nella prigione di Mitiga .. Ah, lì come sapevano picchiare»

È il problema di sempre: raccontare. È possibile trasmettere la memoria strutturandola? Il tempo di luoghi come questo è comunicabile in un altro tempo, il nostro? Ci sono occasioni in cui le parole sembrano aver perso peso, sono sacchi vuoti. Rispetto dell’uomo, rispetto dell’uomo! Questa forse è l’unica pietra di paragone.

Un ragazzo marocchino è tra quelli che dovranno essere rimpatriati tra pochi giorni; sembra frantumi, le parole in sillabe con le mascelle. Spiega perché tutti ritorneranno in Libia a riprovare il viaggio, appena avranno raccolto di nuovo un po’ di denaro: «L’Europa dove vivi tu è la felicità, nei nostri Paesi viviamo per mangiare e non per avere un avvenire»

Le nostre spiegazioni sulla migrazione sono formule venute a finire qui come le vecchie auto arrugginite che solcano le strade di Tripoli. Soltanto un ragazzo della Guinea ha detto che non riproverà. È fradicio di stanchezza: «Basta, è inutile. Non ho famiglia, nessuno che mi attenda né in Guinea né in Europa. Raccontare perché rinuncio? Vengo da laggiù, sono qua, non ti basta?»

Quando un giornalista esce da quella prigione ha le tasche piene di bigliettini, pezzi di cartone su cui hanno scritto numeri di telefono delle loro famiglie: «Chiama, chiama, ti prego. Tu che puoi, dì loro che sono qui, che vengano ad aiutarmi, a tirarmi fuori»

Abbiamo provato a comporre alcuni numeri: risposte in lingue che non si conosce o silenzi che affondano nel sospetto o nella disperazione. Con qualche padre o fratello si è parlato: si cerca di instaurare con loro uno scambio, un rapporto umano. Ci piacerebbe dire loro di non perder fiducia, che i figli e i fratelli stanno bene e, alla fine, ce la faranno. Ma le parole non hanno lo stesso senso per loro e per te, ti chiedi se hanno il minimo senso davanti a questa sofferenza immensa e anonima. Sei tu che perdi fiducia, sei tu che perdi coraggio.

La tragedia delle donne
Nella zona riservata alle donne la situazione sembra migliore ma l’aria è rovente, grava il fiato di un fortore acido. Anche qui non ci sono materassi, solo stracci e stuoie. Accanto scola in una palude l’acqua che esce dalle latrine. Sono giovani ma parlano della vita come vecchie.

Quando i poliziotti hanno tirato fuori da una borsa alcuni oggetti sequestrati: amuleti, fogli di carta con maledizioni rituali, bottiglie di plastica che contengono sangue mestruale. La magia nera per legare le migranti nigeriane che finiscono per prostituirsi. E un quaderno in cui sono segnate, meticolosamente, le prestazioni di lavoro: 15 marzo dieci clienti, 16 marzo diciannove. E i prezzi: cinquanta centesimi di dinaro. Un euro vale nove dinari.

Dalle finestre il sole disegna uno sbilenco rettangolo di luce sulla parete e illumina le scritte. I muri, i muri della sezione femminile parlano: minacce, invocazioni, amari pentimenti. La Nigeria è viva, vieni in Libia e vedrai, grande Paese grandi migranti. Sono quasi tutte nigeriane, molte incinte, forse stuprate: due litigano per un pezzetto di legno che serve come spazzolino da denti, altre due si contendono una caramella.

Un neonato nudo giace abbandonato sul pavimento, le braccia allargate, dorme. Al centro della stanza una donna è seduta a terra, le gambe aperte come per puntellarsi, le passano accanto, la urtano, lei non si muove. Prega, sì prega: un canto monotono per ringraziare dio che non l’ha abbandonata. Il sudiciume del luogo non riesce a coprire il risplendente e duro metallo di quelle parole. , la Parola è davvero senza fine.

Dopo essere stati ripescati in mare dalla Guardia Costiera libica i migranti vengono riportati nei centri-lager
Il business dei trafficanti
Per gli scafisti è indispensabile che i migranti arrivino, e presto: è l’unico modo per avere il denaro. E questo, forse, spiega molti misteri: la ricerca delle navi delle organizzazioni non governative e altro.

Mahmud è il vecchio capo dei pescatori. «A che ora uscite stanotte? L’acqua è calma, si fila lisci sul mare». «Questo mare immobile non è buono, è un mare da migranti non da pescatori, lo dice con stizza, come se fosse qualcosa di sconveniente, è luna piena, sotto la superficie calma la corrente è forte, non ci sono pesci così. I gommoni, quelli sì, escono stanotte per andare da voi»

Mahmud sa mille storie. «Avevo una barca con un libico e tre egiziani, cercavano il pesce spada, bisogna star fuori almeno due-tre giorni. Incontrano una barca di migranti in difficoltà che invocano aiuto. Si fermano, lanciano un appello, arriva una nave delle vostre, armate, grandi, gridano in arabo “State fermi o vi spariamo”. Prendono tutti, i miei pescatori, la barca i migranti, e li rimorchiano a Lampedusa: “Siete scafisti, stavolta la pagate”. Per farli tornare, loro e la barca, ci sono volute settimane di appelli e trattative, ma il pesce quello, era perduto. Le nostre ormai sono acque di nessuno, tunisini e italiani che vengono a pescare di frodo parandosi dietro alle vostre navi, migranti»

Che cosa è vero e che cosa è falso in Libia? Le nostre soluzioni buone per tutto sembrano quegli aggeggi dei meccanici che sono insieme pinza, martello e cacciavite. Ci sii aspettava a Tripoli chiasso e furore per la presenza delle navi italiane e il «colonialismo» di ritorno. Non ne parla nessuno, se non qualche schermaglia di politicanti. Alla manifestazione contro l’Italia c’erano 40 persone impastoiate alla svelta dai Fratelli musulmani.

Tripoli ha 3 milioni di abitanti. I libici, semmai, si preoccupano dell’energia elettrica che non c’è per sei, dieci ore al giorno, e del loro denaro che resta chiuso nelle banche. Al mercato le botteghe degli orefici sono piene di ombra e di meraviglie. Si intravedono monili che sembrano usciti dai tesori di Micene, così magnifici da sembrare falsi. Ma nessun avventore. I mercanti seduti sui loro banchi guardano la strada.

«Se venite qua con una nave che distribuisce energia elettrica diventate i signori della Libia, altro che navi da guerra»

L’ombra di Haftar
Le notizie che diamo per certe assomigliano a miti che si propagano, di origine incerta? Al Sarraj è il nostro uomo, la carta su cui puntiamo tutto. Ebbene a Tripoli senti parlare solo del «Vecchio»: non osano nei caffè dirne il nome, non è prudente. Questa gente ha vissuto 40 anni sotto Gheddafi. Il Vecchio è il generale Haftar, l’uomo di Tobruk, sperano che arrivi presto perché son stufi delle milizie e del primo ministro e delle sue strategie tortuose: «Ci vuole un uomo forte che metta fine al caos»

Per esempio. A Zawia e a Sabratha, solo un’ora di viaggio (da Tripoli), dove sono le spiagge di imbarco dei migranti. Si viaggia solo di giorno, di notte la strada è dei briganti, dei jihadisti, chissà. Ci sono molti posti di blocco, di giorno, gente armata, in mimetica. Noi li definiamo: esercito polizia sicurezza. E pensiamo a ufficiali, catene di comando, disciplina. E invece sono milizie, gente armata di gruppi diversi, ingaggiata dal governo ma che non risponde a nessuno. Il primo posto di blocco si supera senza esser fermati: i miliziani sono tutti intenti a prelevare il pedaggio da un camion. Il secondo è a Zanzur, il ventisettesimo chilometro come dicono qua. Un tempo era un’oasi con le palme fitte come una pineta e pozzi d’acqua. Oggi l’oasi è solo polvere e case sciupate, più grigia che verde.
(da un'inchiesta di Domenico Quirico, La Stampa)

«I trafficanti di uomini sono gente di qua, una mafia organizzata, potente, ben armata, hanno capannoni e case dove nascondono i migranti. Forse le partenze ora diminuiranno un poco: l’Italia non paga i capi del traffico e le milizie?»

Libia, l'inferno dei centri-lager dove sono rinchiusi i migranti

Immagini del terribile inferno nei centri di detenzione libici, in cui sono trattenuti i migranti perché considerati clandestini.



L’orrore delle gabbie libiche. “Queste immagini provengono da centri di detenzione ufficiali riconosciuti dal governo libico, girate dall'Unicef. Ma ci sono decine di centri di detenzione non ufficiali, gestiti dalle milizie e inaccessibili anche al ministero dell’Interno libico. E lì le condizioni sono ancora peggiori. Solo a Tripoli ci sono 13 centri di detenzione non ufficiali

Nel centro ufficiale di Garian ci sono circa 15 contenitori di lamiera e 1400 persone, di cui 250 minori, che sono in questi hangar 24 ore su 24, 7 giorni su 7. In ogni hangar ci sono circa 100 persone e spesso in questi contenitori è così tanta la gente stipata, che fa a turno anche per dormire perché non tutti riescono a sdraiarsi

Non c’è acqua, non c’è cibo a sufficienza. I funzionari del ministro libico, cioè gli ufficiali che hanno il dovere di controllare la gestione, dicono apertamente che, quando non arriva il cibo e non hanno più soldi per acquistarlo, aprono queste gabbie e fanno uscire le persone detenute, insomma le fanno fuggire"

I trafficanti che, in riferimento ai migranti, parlano di ‘stoccaggio merci’. In questi centri di detenzione i medici non possono entrare. Chi è malato è destinato a morire. A un ragazzo nigeriano malato di tubercolosi il console del Niger ha chiesto 1000 dinari libici per i documenti di rimpatrio volontario. Si è intascato i soldi e non si è fatto più vedere




Articolo a cura di
Maris Davis

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