14 marzo 2017

Diritti Umani, Rapporto 2016-2017. Focus sull'Africa


Per milioni di persone, il 2016 è stato un anno di continua sofferenza e paura, poiché governi e gruppi armati hanno compiuto violazioni dei diritti umani nei modi più diversi. Il mondo si sente insicuro e impaurito davanti a un futuro tanto incerto. Ma è proprio in questi momenti che abbiamo bisogno di voci coraggiose, di eroi comuni che si oppongano all'ingiustizia e alla repressione.


È il momento di lottare contro le politiche di demonizzazione che stanno creando divisione e pericoli nel mondo

Amnesty International. Rapporto Annuale 2016-2017
23 Sono i paesi nel mondo che hanno commesso crimini di guerra
22 Gli Stati che hanno visto difensori dei diritti umani uccisi mentre manifestavano pacificamente
36 Le Nazioni che hanno respinto illegalmente migranti e rifugiati

Introduzione
Per milioni di persone, il 2016 è stato un anno di continua sofferenza e paura, poiché governi e gruppi armati hanno compiuto violazioni dei diritti umani nei modi più diversi. Gran parte della città più popolosa della Siria, Aleppo, è stata ridotta in macerie dai bombardamenti aerei e dagli scontri per le strade, mentre proseguivano gli attacchi violenti e crudeli contro i civili nello Yemen. Dal peggioramento della difficile situazione dei rohingya nel Myanmar, fino alle uccisioni illegali di massa in Sud Sudan, dal brutale giro di vite sulle voci di dissenso in Turchia e Bahrein, all’aumento dei discorsi d’incitamento all’odio nella gran parte dell’Europa e degli Usa, il mondo nel 2016 è diventato un posto più cupo e più instabile.

L’elezione di Trump e la retorica dell’odio
Da un punto di vista politico, forse il più importante dei molti eventi destabilizzanti è stata l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Usa. Questa è avvenuta dopo una campagna dominata dalle sue frequenti dichiarazioni controverse, caratterizzate da misoginia e xenofobia, che hanno fatto temere un arretramento delle libertà civili acquisite e l’introduzione di politiche potenzialmente molto dannose per i diritti umani.

La retorica al vetriolo della campagna di Donald Trump incarna una tendenza globale verso politiche sempre più arrabbiate e divisive. In tutto il mondo, leader e politici hanno scommesso il loro futuro potere su un racconto di paura e discordia, addossando agli “altri” le colpe per le lamentele, reali o create ad arte, dell’elettorato.

Il suo predecessore, il presidente Barack Obama, lascia un’eredità che include molti gravi fallimenti nel tutelare i diritti umani, non ultima l’espansione della campagna segreta della Cia di attacchi con droni e lo sviluppo di un’enorme macchina per la sorveglianza di massa, come rivelato dall’informatore Edward Snowden. Ma i primi segnali che arrivano dal presidente eletto Trump suggeriscono una politica estera che indebolirà fortemente la cooperazione multilaterale e che darà inizio a una nuova era di maggiore instabilità e reciproco sospetto.

Ogni lettura complessiva che cerchi di spiegare gli eventi turbolenti dello scorso anno sarebbe probabilmente insufficiente. Ma la realtà è che cominciamo il 2017 in un mondo profondamente insicuro, pieno di ansia e incertezza per il futuro.

La crisi dei diritti umani
In questo scenario, la sicurezza dei valori enunciati dalla Dichiarazione dei diritti umani del 1948 rischia di essere sgretolata. La Dichiarazione, scritta in conseguenza di uno dei periodi più sanguinosi della storia umana, inizia con queste parole: “Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo…”.

Nonostante le lezioni del passato, nel 2016 il concetto di dignità umana e uguaglianza, che contraddistingue la famiglia umana, è stato attaccato con forza e senza sosta da una potente narrazione dei fatti intrisa di colpa, paura e ricerca di capri espiatori, diffusa da coloro che cercano di arrivare o di restare ancorati al potere, quasi a ogni costo.

Lo spregio di questi ideali è stato ampiamente dimostrato in un anno in cui il bombardamento deliberato degli ospedali è diventato un evento di routine in Siria e Yemen; in cui i rifugiati sono stati rimandati indietro in zone di conflitto; in cui l’inerzia quasi totale del mondo di fronte alla situazione di Aleppo ha richiamato alla mente fallimenti simili avvenuti in Ruanda e Srebrenica, nel 1994 e 1995; in cui governi, in quasi tutte le regioni del mondo, hanno messo in atto imponenti giri di vite per mettere a tacere il dissenso.

Di fronte a tutto questo, è diventato drammaticamente facile dipingere un’immagine distopica del mondo e del suo futuro. La sfida urgente e sempre più difficile da affrontare è far ripartire l’impegno del mondo su questi valori fondanti da cui dipende l’umanità.

La sorveglianza di massa
Tra gli sviluppi più preoccupanti del 2016, ci sono stati i frutti di un nuovo patto di scambio offerto dai governi ai loro cittadini, in base al quale si promette sicurezza e miglioramenti economici, in cambio della rinuncia ai diritti alla partecipazione e alle libertà civili.

Nessuna parte del mondo è stata risparmiata dall’ampio giro di vite sul dissenso, in alcuni luoghi palese e violento, in altri subdolo e coperto da un velo di rispettabilità. Il tentativo di mettere a tacere le voci critiche è aumentato per portata e intensità in gran parte del mondo.

I difensori dell’ambiente
L’uccisione della leader nativa Berta Cáceres, avvenuta in Honduras il 2 marzo, è stata un esempio del pericolo affrontato dalle persone che si sono coraggiosamente opposte a stati potenti e agli interessi delle aziende. Questi audaci difensori dei diritti umani, nelle Americhe e altrove, vengono spesso etichettati dai governi come una minaccia per lo sviluppo economico, a causa dei loro sforzi per mettere in luce le conseguenze sulle persone e sull’ambiente dello sfruttamento delle risorse e dei progetti infrastrutturali. Il lavoro di Berta Cáceres per difendere le comunità locali e la loro terra, recentemente contro un progetto di diga, ha avuto una risonanza globale. Gli uomini armati che l’hanno uccisa nella sua casa hanno mandato un messaggio per spaventare gli altri attivisti, in particolare quelli che non ricevono lo stesso livello di attenzione internazionale.

La questione sicurezza
La questione della sicurezza quale giustificazione per la repressione è stata ampiamente usata in tutto il mondo. In Etiopia, in risposta alle proteste per lo più pacifiche contro l’ingiusta espropriazione della terra nella regione di Oromia, le forze di sicurezza hanno ucciso diverse centinaia di manifestanti e le autorità hanno arrestato arbitrariamente migliaia di persone. Il governo etiope ha usato il suo proclama antiterrorismo per portare avanti l’ampio giro di vite sugli attivisti per i diritti umani, i giornalisti e i membri dell’opposizione politica.

Sulla scia di un tentativo di colpo di stato a luglio, la Turchia ha intensificato la repressione delle voci di dissenso durante lo stato d’emergenza. Circa 90.000 impiegati del settore pubblico sono stati licenziati sulla base di accuse di “legami con un’organizzazione terroristica o minaccia alla sicurezza nazionale”, mentre circa 118 giornalisti sono stati tenuti in detenzione preprocessuale e 184 organi d’informazione sono stati chiusi arbitrariamente a tempo indeterminato.

In tutto il Medio Oriente e l’Africa del Nord, la repressione del dissenso è stata endemica. In Egitto, le forze di sicurezza hanno arrestato arbitrariamente e torturato presunti sostenitori dell’organizzazione, messa al bando, dei Fratelli musulmani, così come persone critiche od oppositori del governo.

Le autorità bahreinite hanno perseguito in modo brutale persone che avevano espresso le loro critiche, con una serie di accuse in materia di sicurezza nazionale. In Iran, le autorità hanno imprigionato dissidenti, censurato tutti i mezzi d’informazione e adottato una nuova legge che di fatto rende perseguibile penalmente ogni critica al governo e alle sue politiche.

In Corea del Nord, il governo ha rafforzato la sua già estrema repressione, stringendo ulteriormente la morsa sulle tecnologie della comunicazione.

Spesso, queste rigide misure sono state semplicemente il tentativo di celare i fallimenti del governo, come in Venezuela, dove le autorità hanno cercato di mettere a tacere le voci critiche piuttosto che affrontare la crisi umanitaria in rapido peggioramento.

Oltre alle minacce e agli attacchi diretti, c’è stato un subdolo tentativo di erosione delle libertà civili e politiche acquisite, in nome della sicurezza. Per esempio, il Regno Unito ha adottato una nuova norma, la legge sui poteri d’indagine, che ha attribuito molti più poteri alle autorità d’intercettare, accedere e trattenere o violare in altro modo le comunicazioni digitali e i dati delle persone, anche in assenza del requisito di ragionevole sospetto. Con l’introduzione di uno dei regimi di sorveglianza di massa più estesi al mondo, il Regno Unito ha di fatto imboccato una strada verso una realtà in cui il diritto alla riservatezza è semplicemente non riconosciuto.

Discriminazione e crimini d’odio
Tuttavia, l’erosione dei valori dei diritti umani ha prodotto effetti anche più dannosi quando le autorità hanno dato ad “altri” la colpa dei problemi sociali, reali o percepiti, per giustificare le loro azioni repressive. Una retorica d’odio, divisiva e disumanizzante, ha liberato gli istinti più cupi della natura umana. Addossando la responsabilità collettiva dei mali economici e sociali a particolari gruppi, spesso minoranze etniche o religiose, chi era al potere ha dato il via libera alla discriminazione e ai crimini d’odio, in particolare in Europa e negli Usa.

Una variante di questa strategia è stata l’escalation della “guerra alla droga” del presidente delle Filippine Rodrigo Duterte, che ha portato a un’enorme perdita di vite umane. La violenza avallata dallo stato e le uccisioni di massa da parte dei vigilantes sono costate la vita a 6.000 persone, a seguito delle ripetute dichiarazioni pubbliche rilasciate dal presidente, che incitavano a uccidere coloro che erano sospettati di essere coinvolti in reati legati alla droga.

Nel momento in cui personalità che si autodefiniscono “contro l’establishment” danno la colpa alle così dette élite, alle istituzioni internazionali e ad “altri” per il malcontento sul piano sociale ed economico, danno un’indicazione sbagliata per la risoluzione dei problemi. Il senso d’insicurezza e di negazione dei diritti, che aumenta a causa di vari fattori come la disoccupazione, l’insicurezza del lavoro, la crescente disuguaglianza e la mancanza di servizi pubblici, deve essere affrontato con impegno, risorse e un cambiamento politico da parte dei governi, non con facili capri espiatori a cui dare la colpa.

È diventato evidente il fatto che molte persone disilluse in tutto il mondo non hanno cercato risposta nei diritti umani. Tuttavia, la disuguaglianza e la diffusione di una rabbia di fondo spesso ignorata e la frustrazione che ne deriva sono nate, almeno in parte, dell’incapacità dei governi di soddisfare i diritti economici, sociali e culturali della popolazione.

Coraggio, resilienza, creatività: come rispondiamo alla crisi dei diritti umani
La storia del 2016 è stata anche la storia del coraggio, della resilienza, della creatività e della determinazione di persone che hanno affrontato sfide immense e minacce.

In ogni regione del mondo ci sono state prove del fatto che, laddove gli apparati del potere sono utilizzati come strumenti di repressione, le persone trovano sempre modi diversi per ribellarsi e farsi sentire. In Cina, nonostante le sistematiche vessazioni e intimidazioni, gli attivisti hanno trovato il modo di sfidare la censura e commemorare online l’anniversario della repressione di piazza Tienanmen del 1989.

Ai Giochi olimpici di Rio, il maratoneta Feysa Lilesa ha occupato le prime pagine di tutto il mondo con il suo gesto per attirare l’attenzione sulla persecuzione da parte del governo della popolazione oromo, nel momento in cui tagliava il traguardo per la medaglia d’argento.

E sulle coste europee del Mediterraneo, volontari hanno risposto all’inerzia e al fallimento dei governi nel proteggere i rifugiati, trascinando fisicamente fuori dall’acqua persone che stavano annegando. I movimenti popolari sorti in tutta l’Africa, alcuni impensabili anche solo un anno fa, hanno stimolato e raccolto sotto slogan comuni le richieste collettive di diritti e giustizia.

In conclusione, l’accusa che i diritti umani siano un progetto per pochi suona come una falsità. L’istinto delle persone alla libertà e alla giustizia non si esaurisce facilmente. In un anno dominato da divisione e disumanizzazione, le azioni di alcune persone per riaffermare l’umanità e la dignità fondamentale di ogni individuo hanno brillato più che mai. Questa risposta di compassione è stata incarnata dal ventiquattrenne Anas al-Basha, il così detto “clown di Aleppo”, che ha scelto di rimanere nella città per portare conforto e gioia ai bambini, anche dopo che le forze governative avevano scatenato i loro terribili bombardamenti. Dopo la sua morte, avvenuta durante un attacco aereo il 29 novembre, suo fratello gli ha reso omaggio per aver reso felici i bambini “nel posto più tragico e pericoloso” del mondo.

Il mondo si sente insicuro e impaurito davanti a un futuro tanto incerto. Ma è proprio in questi momenti che abbiamo bisogno di voci coraggiose, di eroi comuni che si oppongano all’ingiustizia e alla repressione. Nessuno può sfidare il mondo intero ma ognuno di noi può cambiare il proprio mondo. Tutti possono prendere posizione contro la disumanizzazione, agendo a livello locale per riconoscere la dignità e i diritti uguali e inalienabili di tutti, gettando così le basi per la libertà e la giustizia nel mondo. Il 2017 ha bisogno di eroi ed eroine dei diritti umani.


Africa

Nel 2016, il continente africano è stato attraversato da proteste, movimenti e mobilitazione di massa, spesso divulgati e organizzati attraverso i social network.

In varie occasioni manifestanti e difensori dei diritti umani hanno trovato modi diversi e stimolanti per far sentire la loro voce contro la repressione e condurre campagne, come #oromoprotests e #amaharaprotests in Etiopia, #EnforcedDisappearancesKE in Kenya, #ThisFlag in Zimbabwe e #FeesMustFall in Sudafrica, diventate immagini emblematiche del 2016.

Data la portata e la lunga storia di repressione nella regione, in alcuni casi queste proteste, come in Etiopia e Gambia, sarebbero state impensabili anche solo un anno fa. Le richieste di cambiamento, inclusione e libertà sono state spesso spontanee, virali e portate avanti da cittadini comuni, soprattutto i giovani, su cui gravava il triplice peso della disoccupazione, della povertà e della disuguaglianza. Benché in origine siano state per lo più pacifiche, alcune delle campagne hanno alla fine avuto esiti violenti, in molti casi come reazione alla pesante repressione messa in atto dalle autorità e alla mancanza di spazio per esprimere le proprie opinioni e organizzarsi.

Questa tendenza alla resilienza di gruppo e il ridimensionamento della politica della paura sono stati motivi di speranza. Le persone sono scese in gran numero per le strade, ignorando le minacce e i divieti di protestare e rifiutandosi di arretrare di fronte alla brutale repressione, e hanno espresso le loro opinioni e rivendicato i loro diritti attraverso azioni di solidarietà, boicottaggi e un uso estensivo e creativo dei social network.

Nonostante le tante storie di coraggio e resilienza, la repressione delle proteste pacifiche ha raggiunto ancora una volta livelli elevati e i progressi compiuti nell’affrontare i problemi alla base del malcontento della popolazione sono sembrati pochi o nulli.

Il dissenso è stato represso con brutalità, come si è visto nei diffusi attacchi che sono stati sistematicamente lanciati contro proteste pacifiche e contro il diritto alla libertà d’espressione. Difensori dei diritti umani, giornalisti e oppositori politici hanno continuato a subire persecuzioni e aggressioni. La popolazione civile ha continuato a sopportare il peso maggiore dei conflitti armati, che sono stati segnati da persistenti violazioni del diritto internazionale, compiute su vasta scala. L’impunità per i crimini di diritto internazionale e per le gravi violazioni dei diritti umani è rimasta una questione pressoché irrisolta. E molto restava ancora da fare per affrontare la discriminazione e l’emarginazione dei gruppi più vulnerabili, come donne, minori e persone Lgbti.

Repressione delle proteste pacifiche

L’anno è stato contrassegnato da una serie di sistematiche, violente e arbitrarie azioni repressive contro raduni e proteste, caratterizzate da divieti di manifestare, arresti arbitrari, detenzioni, percosse e uccisioni in un lungo elenco di paesi, tra cui: Angola, Benin, Burundi, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo (Democratic Republic of Congo), Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea Equatoriale, Mali, Nigeria, Sierra Leone, Sudafrica, Sudan, Togo e Zimbabwe.

Le forze di sicurezza etiopi, per citare un esempio, sono sistematicamente ricorse a un uso eccessivo della forza per disperdere le manifestazioni per lo più pacifiche, che erano iniziate nell'Oromia a novembre 2015 e che si sono intensificate e allargate ad altre parti del paese, compresa la regione di Amhara. Le forze di sicurezza hanno represso con brutalità le proteste, anche con l’uso di proiettili veri, uccidendo centinaia di persone e arrestandone arbitrariamente migliaia. In seguito alla dichiarazione dello stato d’emergenza, il governo ha messo al bando qualsiasi forma di protesta, continuando a imporre il blocco all'accesso a Internet e ai social network, che aveva imposto durante le manifestazioni.

In Nigeria, l’esercito e altre forze di sicurezza hanno lanciato una campagna di violenza contro pacifici manifestanti pro-Biafra, uccidendone almeno un centinaio durante l’anno. È stato provato che, per disperdere la folla, i soldati hanno sparato proiettili veri senza lanciare un adeguato avviso o senza avvisare affatto; sono emerse anche prove di esecuzioni extragiudiziali di massa, compreso il caso di almeno 60 persone uccise sommariamente a colpi d’arma da fuoco nell'arco di due giorni, in relazione agli eventi di protesta che avevano segnato la commemorazione della Giornata della memoria del Biafra, il 30 maggio.

Le modalità con cui era stata messa in atto la repressione erano del tutto analoghe a quelle già viste negli attacchi e nell'uso eccessivo della forza verificatisi a dicembre 2015, in occasione dei raduni in cui l’esercito aveva massacrato centinaia di uomini, donne e bambini a Zaria, nello stato di Kaduna, durante uno scontro con membri del Movimento islamico in Nigeria.

In Sudafrica, le proteste degli studenti sono riprese ad agosto nelle varie università del paese, sotto lo slogan #FeesMustFall e sono regolarmente sfociate nella violenza. Anche se da parte degli studenti c’è stato un qualche ricorso alla violenza, Amnesty International ha documentato molte denunce di uso eccessivo della forza da parte della polizia, che non aveva esitato a sparare proiettili di gomma a distanza ravvicinata contro gli studenti e i loro simpatizzanti in generale. Il 20 ottobre, a Johannesburg, un leader studentesco è stato colpito alla schiena con proiettili di gomma 13 volte.

Nello Zimbabwe, la polizia di Harare ha proseguito il giro di vite sulle proteste e le azioni sindacali, con un uso eccessivo della forza. Centinaia di persone sono state arrestate per aver partecipato a proteste pacifiche in varie parti del paese, compreso il pastore battista Evan Mawarire, leader della campagna #ThisFlag, che è stato sottoposto a un breve periodo di fermo, nel tentativo di reprimere il crescente dissenso, e che è alla fine fuggito dal paese temendo per la sua vita.

In molte di queste proteste e altre ancora, come quelle in Ciad, Repubblica del Congo (Congo), Drc, Etiopia, Gabon, Gambia, Lesotho e Uganda, le autorità hanno intensificato la repressione sui social network e imposto sistematiche e arbitrarie restrizioni d’accesso a Internet o il blocco totale delle connessioni.


Attacchi ai difensori dei diritti umani e giornalisti

Difensori dei diritti umani e giornalisti si sono trovati frequentemente in prima linea nell'affrontare le violazioni dei diritti umani e il loro diritto alla libertà d’espressione è stato progressivamente ridotto, in un contesto di nuove ondate di minacce. Tentativi di schiacciare il dissenso e stringere il cappio attorno alla libertà d’espressione si sono manifestati nei paesi di tutto il continente, tra cui: Botswana, Burundi, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Gambia, Kenya, Mauritania, Nigeria, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Tanzania, Togo e Zambia.

Alcuni hanno dovuto pagare un prezzo molto alto. Un noto avvocato per i diritti umani, il suo cliente e il loro tassista sono stati sottoposti a sparizione forzata e a uccisione extragiudiziale dalla polizia del Kenya. I loro casi erano fra quelli di almeno altre 177 vittime di esecuzione extragiudiziale per mano delle agenzie di sicurezza, registrati durante l’anno. In Sudan, l’omicidio dello studente universitario sudanese Abubakar Hassan Mohamed Taha, di 18 anni, e quello di Mohamad Al Sadiq Yoyo, di 20 anni, per mano di agenti dell’intelligence, sono avvenuti in un contesto di crescente repressione nei confronti del dissenso studentesco. Due giornalisti sono stati uccisi in Somalia da aggressori non identificati, in un clima in cui gli operatori dell’informazione hanno subìto vessazioni, intimidazioni e attacchi.

Molti altri sono incorsi in arresti arbitrari e hanno continuato ad affrontare procedimenti giudiziari e detenzioni a causa del loro lavoro. Nonostante alcuni passi positivi registrati in Angola, come l’assoluzione di difensori dei diritti umani e il rilascio di prigionieri di coscienza, le autorità hanno continuato a ricorrere a processi politicamente motivati, accuse di diffamazione e legislazioni in materia di sicurezza nazionale per mettere a tacere i difensori dei diritti umani, il dissenso e altre voci critiche. Nella Drc, i movimenti giovanili sono stati classificati come gruppi insurrezionalisti. In Eritrea, non si sono avute notizie sulla sorte di politici e giornalisti arbitrariamente arrestati e sottoposti a sparizione forzata dal 2001, malgrado il governo avesse dichiarato che erano ancora vivi.

In Mauritania, benché la Corte suprema avesse ordinato il rilascio di 12 attivisti impegnati contro la schiavitù, tre sono rimasti in detenzione e le organizzazioni che si opponevano a questa pratica e altri attivisti continuavano a essere perseguiti dalle autorità del paese.

Oltre alla carcerazione, difensori dei diritti umani e giornalisti sono stati anche vittime di episodi di aggressione fisica, intimidazione e vessazione in molti paesi, tra cui Ciad, Gambia, Kenya, Somalia e Sud Sudan.

Il 18 aprile, Giornata dell’indipendenza dello Zimbabwe, agenti della sicurezza di stato hanno brutalmente aggredito il fratello del giornalista scomparso e attivista filodemocratico, Itai Dzamara, dopo che aveva alzato un cartello durante un evento in cui era presente il presidente Robert Mugabe, ad Harare. In Uganda, si sono susseguiti vari attacchi agli uffici di Ngo e a difensori dei diritti umani. Il continuo fallimento nell’accertare le responsabilità per questi crimini dimostrava che le autorità avevano condonato e tollerato queste azioni. In una di queste aggressioni, gli intrusi hanno picchiato a morte una guardia.

Testate giornalistiche, giornalisti e utenti dei social network hanno dovuto affrontare crescenti difficoltà in molti paesi. Le autorità dello Zambia hanno chiuso il quotidiano indipendente The Post, con una mossa strategica per ridurre al silenzio l’informazione critica in vista delle elezioni, e hanno arrestato i giornalisti alla guida della redazione e i loro familiari.

La società civile del Burundi e l’informazione indipendente del paese, le cui attività erano state già ampiamente limitate, sono finite sempre più spesso nel mirino delle autorità: giornalisti, utenti dei social network e perfino alunni di scuola sono stati arrestati semplicemente per aver fatto sentire la loro voce. In Camerun, Fomusoh Ivo Feh è stato condannato a 10 anni di carcere per aver inoltrato un sms sarcastico che riguardava Boko haram.

In alcuni paesi, ha destato preoccupazione l’approvazione di nuove legislazioni. In Mauritania, una bozza di legge all’esame del parlamento avrebbe limitato il diritto alla libertà di riunione pacifica e d’associazione. In Congo, è stata introdotta una legge che ha aumentato il controllo del governo sulle organizzazioni della società civile. In Angola, l’assemblea nazionale ha approvato cinque bozze legislative che avrebbero inderogabilmente limitato il diritto alla libertà d’espressione. In altre parti, le autorità sono ricorse all'applicazione di leggi già in vigore, come quella sul terrorismo e sullo stato d’emergenza, per criminalizzare il dissenso pacifico. Il governo etiope, sempre più intollerante nei confronti delle voci d’opposizione, ha inasprito il suo giro di vite contro giornalisti, difensori dei diritti umani e altri dissidenti, ricorrendo al proclama antiterrorismo.

In questo scenario, non è tuttavia mancato qualche elemento positivo legato alle attività e al coraggio di operatori della giustizia che, anche nei paesi più repressivi, hanno sfidato l’utilizzo da parte dei governi della legge e della magistratura per soffocare il dissenso. Nella Drc, quattro attivisti filodemocratici sono stati rilasciati, con un raro ma positivo passo avanti, fatto in un anno molto difficile per la libertà d’espressione nel paese. Una sentenza storica contro le leggi repressive dello Swaziland, pronunciata a settembre, ha rappresentato un’altra vittoria per il movimento dei diritti umani. L’Alta corte dello Zimbabwe ha ribaltato un provvedimento che aveva messo al bando le proteste. Sebbene il giudizio di un’altra Alta corte abbia successivamente invalidato la sentenza, la coraggiosa decisione, arrivata dopo che il presidente Mugabe aveva minacciato la magistratura, ha rappresentato una vittoria per la difesa dei diritti umani e ha lanciato un chiaro messaggio alle autorità del paese, che il diritto di protestare non poteva essere cancellato per un capriccio. In Gambia, oltre 40 prigionieri di coscienza, alcuni dei quali erano detenuti anche da otto mesi, sono stati rilasciati su cauzione in attesa d’appello, subito dopo le elezioni.

Repressione politica

Il 2016 è stato contrassegnato dalla contestazione delle elezioni in vari stati dell’Africa e da un aumento della repressione. In molti paesi, come Burundi, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Drc, Gabon, Gambia, Somalia e Uganda, leader d’opposizione e voci critiche sono stati duramente attaccati.

In maniera del tutto inaspettata, in Gambia decine di migliaia di cittadini hanno preso parte ai raduni pacifici che hanno preceduto le elezioni presidenziali, sebbene a fine anno il risultato elettorale rimanesse ancora contestato.

I mesi che hanno preceduto le elezioni sono stati segnati da gravi violazioni dei diritti dei cittadini a esprimere liberamente le loro opinioni. Decine di membri dell’opposizione sono stati arrestati e due sono deceduti in custodia, dopo essere stati sottoposti a fermo per aver partecipato alle proteste pacifiche. Trenta manifestanti sono stati condannati a tre anni di reclusione per il loro coinvolgimento nelle proteste pacifiche e altri 14 erano in attesa di processo. Tutti sono stati rilasciati su cauzione immediatamente dopo lo svolgimento delle elezioni del 1° dicembre.

Nonostante avesse inizialmente ammesso la sua sconfitta di fronte alla vittoria del leader d’opposizione Adama Barrow, il presidente Yahya Jammeh ha successivamente contestato i risultati e ha sfidato le pressioni esercitate a livello interno e internazionale rifiutandosi di cedere il potere.

Il governo dell’Uganda ha di fatto impedito al partito d’opposizione di contestare attraverso le vie legali i risultati delle elezioni di febbraio. Le forze di sicurezza hanno arrestato più volte il candidato presidenziale dottor Kizza Besigye, che sarebbe stato la parte lesa, e alcuni suoi colleghi di partito e sostenitori, anche piantonando la sua abitazione e facendo irruzione nell’ufficio del partito a Kampala.

Nella Drc, le autorità hanno messo in atto un sistematico giro di vite contro quanti si opponevano al tentativo del presidente Joseph Kabila di rimanere al potere oltre la scadenza del secondo mandato sancito costituzionalmente, ovvero dicembre, e contro coloro che avevano criticato i rinvii delle elezioni. Gli agenti di sicurezza hanno arrestato e vessato coloro che avevano assunto una posizione esplicita nell’ambito del dibattito costituzionale o denunciato violazioni dei diritti umani, accusandoli di tradire il paese.

In Somalia, una già grave situazione di crisi umanitaria si è sommata a una crisi politica riguardante i collegi elettorali per le elezioni parlamentari e presidenziali, con il gruppo armato al-Shabaab che ha rifiutato qualsiasi forma di elezione ed esortato i suoi sostenitori ad attaccare i seggi elettorali e a uccidere leader dei clan, autorità di governo e parlamentari che prendevano parte alle elezioni.

Le autorità del Congo hanno continuato a detenere Paulin Makaya, presidente dell’Unione per il Congo (Unis pour le Congo – Upc), semplicemente perché aveva esercitato il suo diritto alla libertà d’espressione. Dopo che l’opposizione aveva respinto i risultati delle elezioni presidenziali di marzo, le autorità hanno arrestato alcuni esponenti di spicco dell’opposizione e represso le proteste pacifiche.

In Costa d’Avorio, le autorità hanno preso di mira membri dell’opposizione e hanno indebitamente limitato i loro diritti alla libertà d’espressione e riunione pacifica, prima dello svolgimento di un referendum riguardante alcune modifiche costituzionali, che si è tenuto a ottobre; hanno arbitrariamente arrestato e detenuto decine di esponenti d’opposizione durante una protesta pacifica. Alcuni di loro sono stati lasciati in vari luoghi della capitale economica del paese, Abidjan, altri ancora a circa 100 chilometri dalle loro abitazioni e costretti a tornare a piedi, secondo una pratica conosciuta come “detenzione mobile”. A ottobre, durante una protesta pacifica contro il referendum, la polizia ha sparato gas lacrimogeni, picchiato con bastoni i leader e arrestato almeno 50 persone.

Conflitto armato

La popolazione civile colpita dai conflitti armati, in corso in paesi come Camerun, Repubblica Centrafricana (Central African Republic), Ciad, Drc, Mali, Niger, Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Sudan, ha affrontato gravi violazioni dei diritti umani.

Gli episodi di violenza sessuale e altre forme di violenza di genere sono stati diffusi e minori sono stati reclutati come bambini soldato

Nell’Africa Occidentale, Centrale e Orientale, gruppi armati come al-Shabaab e Boko haram hanno continuato compiere spietatamente violenze e abusi, con centinaia di civili uccisi e rapiti e altri milioni costretti a vivere nella paura e nell’insicurezza, sia all'interno che fuori dai confini nazionali. In Camerun, oltre 170.000 persone, in maggioranza donne e bambini, erano sfollate internamente nella regione dell’Estremo Nord, a seguito degli abusi compiuti da Boko haram. In Niger, oltre 300.000 persone necessitavano di aiuti umanitari durante lo stato d’emergenza proclamato nella regione di Diffa, dove Boko haram ha compiuto la maggior parte dei suoi attacchi.

Molti governi hanno risposto a queste minacce nel disprezzo del diritto internazionale umanitario e delle norme internazionali sui diritti umani, non esitando a mettere in atto arresti arbitrari, detenzioni in incommunicado, tortura, sparizioni forzate ed esecuzioni extragiudiziali.

In Nigeria, 29 bambini di meno di sei anni, compresi neonati, erano tra le oltre 240 persone morte durante l’anno in circostanze raccapriccianti, nel famigerato centro di detenzione presso la caserma di Giwa, a Maiduguri. Migliaia di persone rastrellate nel corso di arresti di massa effettuati dalle autorità nel nord-est del paese, spesso in assenza di prove a loro carico, hanno continuato a essere detenute in condizioni di sovraffollamento e carenze igienico-sanitarie, senza essere processate o senza contatti con il mondo esterno. In maniera simile, in Camerun, oltre un migliaio di persone, molte arrestate arbitrariamente, sono state trattenute in condizioni terribili e decine di loro sono morte a causa delle torture subite o di malattie e malnutrizione. Nei casi in cui i detenuti sospettati di sostenere Boko haram sono stati sottoposti a processo, hanno affrontato procedimenti giudiziari iniqui celebrati da tribunali militari, il cui risultato più probabile era una condanna a morte.

In altre parti, come negli stati del Darfur, Nilo Blu e Kordofan del Sud in Sudan, la situazione umanitaria e della sicurezza era allarmante. Sono emerse prove dell’utilizzo da parte delle forze governative di armi chimiche nella regione del Jebel Marra, in Darfur, a dimostrazione del fatto che il regime continuava ad attaccare la propria popolazione civile, senza temere di essere giudicato per le sue violazioni del diritto internazionale.

Nonostante la firma di un accordo di pace in Sud Sudan tra il governo e le forze rivali, i combattimenti sono proseguiti in varie parti del paese durante tutto l’anno, raggiungendo un’escalation nella regione meridionale dell’Equatoria, dopo che a luglio la capitale Juba era stata teatro di pesanti scontri. Le forze armate impegnate nei combattimenti, soprattutto soldati governativi, si sono rese responsabili di violazioni dei diritti umani, come uccisioni e attacchi mirati, anche contro personale delle agenzie umanitarie. La missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan (UN Mission in South Sudan – Unmiss) è stata criticata per non essere stata in grado di proteggere la popolazione civile durante i combattimenti.

La risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per la creazione di un contingente di protezione regionale non è stata implementata. Il Consigliere speciale delle Nazioni Unite sulla prevenzione del genocidio e la Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani in Sud Sudan hanno lanciato l’allarme sul potenziale rischio che la situazione in Sud Sudan potesse sfociare in genocidio.

Nella Car, malgrado lo svolgimento pacifico delle elezioni a dicembre 2015 e febbraio 2016, la situazione della sicurezza si è progressivamente deteriorata nel corso dell’anno, minacciando di gettare il paese in una violenza ancora più micidiale. I gruppi armati hanno lanciato numerosi attacchi: il 12 ottobre, combattenti ex séléka appartenenti ad almeno due fazioni distinte hanno ucciso almeno 37 civili, ferendone 60, e dato alle fiamme un campo per sfollati interni, nella città di Kaga-Bandoro.

Tuttavia, davanti a questo spargimento di sangue e a tanta sofferenza, si può affermare che l’attenzione del mondo è stata sempre più lontana dai conflitti che infiammavano il continente africano. Quel che è certo, è che la risposta della comunità internazionale alle situazioni di conflitto nel continente è stata gravemente inadeguata, come messo in evidenza dal fallimento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nell'approvare le sanzioni al Sud Sudan e dall'inadeguatezza delle operazioni di peace-keeping per proteggere la popolazione civile nella Car, in Sud Sudan e Sudan.

A stento è stata approvata qualche misura, anche da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e del Consiglio di pace e sicurezza dell’Au, per fare pressioni sul governo del Sudan affinché permettesse l’accesso delle agenzie umanitarie e indagasse sulle accuse riguardanti le gravi violazioni dei diritti umani e gli abusi commessi. La risposta dell’Au ai crimini di diritto internazionale e alle altre gravi violazioni dei diritti umani ed abusi commessi nel contesto del conflitto e delle crisi è rimasta per lo più lenta, incoerente e tardiva, piuttosto che essere parte di una più articolata e adeguata strategia.

Persone in movimento

I conflitti in corso nella regione, come quelli in Camerun, Car, Ciad, Mali, Niger, Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Sudan, continuavano a essere le principali motivazioni alla base della crisi globale dei rifugiati e dello sfollamento delle persone all'interno dei confini nazionali. milioni di donne, bambini e uomini continuavano a non poter rientrare nelle loro abitazioni o a essere costretti da nuove minacce a fuggire, andando incontro a pericoli sconosciuti e a un futuro incerto.

Le persone originarie dell’Africa Sub-sahariana costituivano la maggioranza delle centinaia di migliaia di rifugiati e migranti che si erano messi in viaggio verso la Libia, per sfuggire a situazioni di guerra, persecuzione o povertà estrema, spesso nella speranza di transitare attraverso il paese, per poi stabilirsi in Europa. La ricerca condotta da Amnesty International ha rivelato che, lungo le rotte dei trafficanti verso e attraverso la Libia, si sono verificati abusi terrificanti, come violenza sessuale, uccisioni, tortura e persecuzione religiosa.

Nel nord della Nigeria, almeno due milioni di persone rimanevano sfollate internamente, ospitate presso comunità locali e all’interno di campi sovraffollati e del tutto inadeguati sotto il profilo igienico-sanitario, dove mancavano cibo e acqua sufficienti. Decine di migliaia di sfollati interni erano trattenuti nei campi sotto la sorveglianza armata dell’esercito e della task force civile congiunta, accusate di sfruttare le donne a scopi sessuali.

Migliaia di persone sono morte all’interno di questi campi a causa della grave malnutrizione

Centinaia di migliaia di rifugiati provenienti dalla Car, dalla Libia, dalla Nigeria e dal Sudan continuavano a vivere in condizioni deplorevoli all’interno di campi rifugiati in territorio ciadiano. Secondo le Nazioni Unite, gran parte delle almeno 300.000 persone fuggite dal Burundi avevano cercato riparo nei campi per rifugiati in Rwanda e Tanzania. Oltre 1,1 milioni di somali erano ancora sfollati internamente al paese, mentre altrettanti rimanevano nei paesi limitrofi e altrove.

A tre anni dall’inizio del conflitto in Sud Sudan, il numero di rifugiati nei paesi confinanti aveva raggiunto il milione, mentre gli sfollati all'interno del paese erano complessivamente 1,7 milioni; 4,8 milioni di persone versavano in condizioni di insicurezza alimentare.

Il governo del Kenya ha annunciato l’intenzione di chiudere il campo per rifugiati di Dadaab, dove vivevano 280.000 persone. Circa 260.000 di queste provenivano dalla Somalia o avevano origini somale e, a seguito dei vari cambiamenti apportati dal governo del Kenya alle proprie politiche in materia di rifugiati, rischiavano di essere rimandati in Somalia con la forza, in violazione del diritto internazionale.

Impunità e fallimenti sul piano giudiziario

L’impunità è rimasta un denominatore comune in tutti i principali conflitti nella regione, dove i sospettati di crimini di diritto internazionale e gravi violazioni dei diritti umani sono stati raramente chiamati a rispondere delle loro azioni.

Nonostante avesse un chiaro mandato, l’Au non aveva ancora intrapreso iniziative concrete per la realizzazione di un tribunale ibrido per il Sud Sudan, secondo quando stabilito dai termini dell’accordo di pace raggiunto dal paese. Questo costituirebbe l’opzione più praticabile per garantire l’accertamento delle responsabilità per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi nel contesto del conflitto e sarebbe un deterrente contro il verificarsi di ulteriori abusi.

Nella Car, sono stati compiuti alcuni progressi per la creazione di un tribunale speciale ma la gran parte dei presunti responsabili dei gravi crimini e delle terribili violazioni dei diritti umani è rimasta latitante, senza rischiare di essere arrestata o indagata. Oltre alle gravi carenze dimostrate dalla missione di peace-keeping delle Nazioni Unite nella Car, l’impunità è rimasta uno dei fattori scatenanti del conflitto e la popolazione civile ha affrontato violenze inaudite e instabilità.

In Nigeria sono emerse prove inconfutabili di diffuse e sistematiche violazioni del diritto internazionale umanitario e delle norme internazionali sui diritti umani da parte dell’esercito, che hanno causato la morte in detenzione militare di almeno 7.000 uomini nigeriani, prevalentemente giovani e ragazzi, e di almeno 1.200 persone vittime di esecuzioni extragiudiziali. Tuttavia, il governo non ha intrapreso alcuna iniziativa per indagare su queste accuse e nessuno è stato processato, mentre le violazioni sono continuate.

L’Icc ha ritirato le accuse a carico del vicepresidente keniano William Ruto e del conduttore radiofonico Joshua Arap Sang, facendo decadere l’impianto accusatorio di tutti i casi giudiziari esaminati dall’Icc, in relazione alla violenza postelettorale occorsa in Kenya tra il 2007 e il 2008. La decisione dell’Icc è stata vista come un’enorme battuta d’arresto per le migliaia di vittime che ancora non hanno ottenuto giustizia.

Tre stati africani, Burundi, Gambia e Sudafrica, hanno comunicato l’intenzione di recedere dallo Statuto di Roma, tradendo così milioni di vittime di crimini di diritto internazionale in tutto il mondo.

L’Au ha inoltre continuato a esortare gli stati a non adempiere ai loro obblighi internazionali relativi all’arresto del presidente sudanese Omar Al Bashir, malgrado su di lui pendesse un mandato di cattura emesso dall’Icc per accuse di genocidio. A maggio, l’Uganda non ha provveduto ad arrestare il presidente Al Bashir in visita nel paese e a consegnarlo all’Icc, tradendo così le centinaia di migliaia di persone uccise o sfollate nel contesto del conflitto in Darfur.

Nonostante tutto, ci sono stati alcuni fatti rincuoranti e di portata storica per la giustizia internazionale e l’accertamento delle responsabilità

Molti stati africani membri dell’Icc hanno ribadito il loro sostegno alla corte e la loro intenzione di continuare ad aderire allo Statuto di Roma, durante la 15ª sessione dell’Assemblea degli stati parte, tenutasi a novembre. Questo impegno era stato confermato in precedenza a luglio, al summit dell’Au a Kigali, durante il quale molti paesi, tra cui Botswana, Costa d’Avorio, Nigeria, Senegal e Tunisia, si erano opposti a una risoluzione per un ritiro collettivo dallo Statuto di Roma. A dicembre, il presidente eletto del Gambia ha annunciato l’intenzione di ritirare la decisione del governo di recedere dallo Statuto di Roma.

Tra gli sviluppi positivi c’è stata anche la condanna a maggio dell’ex presidente del Ciad Hissène Habré per crimini contro l’umanità, crimini di guerra e tortura, commessi tra il 1982 e il 1990. La sua condanna all’ergastolo da parte delle Camere straordinarie africane di Dakar ha rappresentato un punto di riferimento per ogni tentativo futuro di porre fine all’impunità in Africa. Il caso giudiziario era il primo nel continente ad affermare il principio della giurisdizione universale e Habré era il primo ex leader africano a essere perseguito davanti a un tribunale di un altro paese per crimini di diritto internazionale.

A marzo, l’Icc ha giudicato colpevole Jean-Pierre Bemba, ex vicepresidente della Drc, di crimini di guerra e crimini contro l’umanità compiuti nella Car. Infliggendogli 19 anni di carcere, l’Icc ha emesso la sua prima condanna relativa allo stupro come crimine di guerra e al riconoscimento della responsabilità di comando. Questo ha rappresentato un momento storico nella battaglia per la giustizia per le vittime di violenza sessuale nella Car e in tutto il mondo.

L’Icc ha anche avviato il processo all’ex presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, e al suo ministro della Gioventù, Charles Blé Goudé, accusati di crimini contro l’umanità. L’Icc ha inoltre giudicato colpevole Ahmad Al-Faqi Al-Mahdi, presunto esponente di spicco del gruppo armato Ansar Eddine, degli attentati compiuti alle moschee e ai complessi monumentali a Timbuctu, in Mali, nel 2012, considerati crimini secondo il diritto internazionale.

Infine, la Corte suprema del Sudafrica ha ammonito il governo sudafricano per non aver adempiuto ai suoi obblighi sul piano interno e internazionale, in merito al mancato arresto di Al Bashir, durante una sua visita nel paese nel 2015. La presa di posizione della Corte ha affermato la norma internazionale che prevede la revoca dell’immunità per i responsabili di crimini di diritto internazionale, indipendentemente dalla loro carica ufficiale.


Discriminazione ed emarginazione

Donne e ragazze sono state frequentemente vittime di discriminazione, emarginazione e abusi, spesso a causa di tradizioni e consuetudini culturali e di una discriminazione istituzionalizzata da leggi inique. Donne e ragazze sono state anche vittime di violenza sessuale e stupro, compiuti nel contesto dei conflitti e nei paesi che ospitavano un alto numero di sfollati e rifugiati.

In molti paesi africani, tra cui Madagascar, Namibia e Sierra Leone, sono stati registrati elevati livelli di violenza motivata dal genere contro donne e ragazze.

In Sierra Leone, il governo ha continuato a vietare alle ragazze in stato di gravidanza di frequentare la scuola pubblica e di sostenere gli esami. Il presidente si è inoltre rifiutato di firmare una legge per legalizzare l’aborto in determinate circostanze, malgrado questa fosse stata già approvata dal parlamento due volte e a fronte dell’alta incidenza della mortalità materna della Sierra Leone. Il paese ha respinto le raccomandazioni formulate dalle Nazioni Unite, che esortavano le autorità a proibire per legge la pratica delle mutilazioni genitali femminili.

In Burkina Faso, i matrimoni precoci e forzati hanno derubato migliaia di ragazze, anche di appena 13 anni, della loro infanzia, mentre il costo dei contraccettivi, unito ad altri ostacoli, impediva loro di scegliere se e quando avere dei figli. Tuttavia, in seguito a un’intensa campagna delle organizzazioni della società civile, il governo ha annunciato che avrebbe rivisto la legge al fine di innalzare a 18 anni l’età minima per il matrimonio.

Le persone Lgbti, e coloro che erano percepiti tali, hanno continuato ad affrontare discriminazioni in paesi come Botswana, Camerun, Kenya, Nigeria, Senegal, Tanzania, Togo e Uganda. In Kenya, due uomini hanno inoltrato un’istanza presso l’Alta corte di Mombasa per chiedere che le visite anali e i test per l’Hiv e l’epatite B, cui erano stati sottoposti con la forza nel 2015, fossero dichiarati anticostituzionali. Tuttavia, la corte ha confermato la legalità delle visite anali, se praticate al fine di provare l’attività sessuale tra uomini. Costringere una persona a sottoporsi a visita anale costituisce una violazione del diritto alla riservatezza e del divieto di tortura e altri maltrattamenti, sanciti dal diritto internazionale.

In Malawi, un’ondata senza precedenti di aggressioni violente contro persone affette da albinismo ha fatto emergere il sistematico fallimento delle forze di polizia. Privati cittadini e bande criminali hanno perpetrato rapimenti, uccisioni e rapine aggravate nel tentativo di ottenere parti di cadavere che ritenevano avere poteri magici. Donne e bambini sono stati particolarmente esposti agli omicidi compiuti a questo scopo e in alcuni casi sono stati presi di mira dai loro stessi parenti.

In Sudan, la libertà di religione è stata messa a repentaglio da un sistema legislativo in base al quale la conversione dall’Islam a un’altra religione era punibile con la pena di morte.

Il mancato accertamento delle responsabilità delle imprese è stato un altro fattore cruciale per le terribili violazioni dei diritti dei minori. Nella Drc, i minatori operavano a mano nuda nelle miniere, compresi migliaia di bambini, impiegati in condizioni rischiose per l’estrazione di cobalto. Il cobalto viene utilizzato in molti dispositivi elettronici come telefoni cellulari e laptop e i più importanti marchi, del calibro di Apple, Samsung e Sony, non stanno adottando i controlli basilari per assicurare che il cobalto estratto dai lavoratori minorenni non sia utilizzato nei loro prodotti.

Guardando avanti

L’Au ha proclamato il 2016 anno dei diritti umani, tuttavia molti paesi della regione non hanno tradotto in azione la retorica sui diritti umani. Se mai ci fosse stato qualcosa da celebrare in quest’anno, sarebbe stata piuttosto la storia di resilienza e coraggio di tante persone che hanno lanciato un chiaro messaggio, ovvero che la repressione e la politica della paura non possono più metterle a tacere.

Quasi certamente, il peggioramento delle crisi, come quelle in Burundi, Etiopia, Gambia e Zimbabwe, avrebbe potuto essere evitato o comunque contenuto, se ci fosse stata la volontà politica e il coraggio di lasciare finalmente le persone libere di esprimere apertamente le loro opinioni.

Nonostante alcuni progressi compiuti in determinate aree, le risposte date dall’Au alle violazioni dei diritti umani, sia in quanto cause strutturali dei conflitti sia come conseguenze degli stessi, sono rimaste per lo più lente, incoerenti e tardive. In definitiva, anche quando ha dimostrato la sua preoccupazione, l’Au non ha generalmente avuto la determinazione e la volontà politica di combattere apertamente queste violazioni. È sembrata inoltre esserci una mancanza di coordinazione tra gli organi di pace e sicurezza e i vari meccanismi, come il Consiglio di pace e sicurezza dell’Au e il suo sistema di allerta continentale, e le istituzioni regionali sui diritti umani; questo ha limitato la capacità di dare una risposta complessiva e adeguata alle violazioni dei diritti umani, che erano causa o conseguenza dei conflitti.

L’Au ha meno di quattro anni di tempo per realizzare il suo progetto di “far tacere i cannoni” nel continente entro il 2020. È arrivato il tempo di tradurre in azione quest’impegno, assicurando una risposta efficace alle cause strutturali che stanno alla base dei conflitti, comprese le persistenti violazioni dei diritti umani.

Per combattere il circolo dell’impunità sono necessarie misure più efficaci, che comprendano anche un’inversione di tendenza rispetto agli attacchi politicamente motivati contro l’Icc e un maggior impegno per assicurare giustizia per le vittime e l’accertamento delle responsabilità per i gravi crimini e le gravi e diffuse violazioni dei diritti umani, che continuano in paesi come il Sud Sudan e non solo.

Nel proclamare l’avvio di un Programma decennale d’azione e implementazione dei diritti umani in Africa, l’Au ha creato un’altra opportunità per affrontare alcune delle sue sfide più rilevanti. Il punto di partenza dovrebbe essere riconoscere che, malgrado la repressione e l’esclusione, gli africani stanno alzando la voce per reclamare i loro diritti.
(Amnesty International)

Situazione dei Diritti Umani nei singoli Paesi dell'Africa





Articolo a cura di
Maris Davis

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