31 gennaio 2017

02 Introduzione al Woodoo

Introduzione allo studio del woodoo, parte integrante della cultura animista dell'Africa sub-sahariana occidentale, e che ha molta influenza nella tratta delle ragazze nigeriane verso l'Europa.

Attualmente non è più un segreto per nessuno che la pratica del “Vodun” sia ormai una realtà inconfutabile in tutto in mondo, ma sulla sua pratica, a torto o a ragione, si mantiene ancora una visione confusa. Al woodoo (o Vodun) si guarda spesso tramite l’esame delle sue cadute specialmente quelle puramente negative, mentre per i neri, in generale, e per il popolo Fon del Benin, in particolare, è qualcos'altro.

Origini e pratiche contemporanee
Il woodoo, come tutte le religioni, è una risposta alle tre domande fondamentali che si pongono tutti gli esseri umani, a prescindere dal colore della pelle e da dove vivono sulla terra:
Chi siamo
Dove siamo
Da dove veniamo


Non trovando una risposta definitiva, la gente del golfo di Guinea ha pensato che ci dovesse essere una forza soprannaturale che era responsabile dell’esistenza di tutti gli elementi che ci circondano e quindi, anche di noi. Questo ragionamento ci conduce a credere che ci sia una forza di energia che si manifesta attraverso questi elementi fisici da cui noi riceviamo l’alito “di Dio”, o qualsiasi altro termine usato per indicare questa "energia invisibile ma potente"

Woodoo (per gli africani che lo praticano) è l’espressione di un concetto di vita, una filosofia, un’espressione di potere spirituale, in poche parole il potere di una mente trasformata che può comprendere tutte le meraviglie dell’umanità (terra, cielo, foreste, oceani, stelle, montagne ecc.)

Secondo la “visione” di Fon Danxomè (un modo per indicare l'antica tradizione orale del Benin), questa pratica ci è stata mutuata da civiltà antiche, molto più antiche di quanto si pensi, in Oyo Yoruba (un Dio), che è stato poi ridisegnato e migliorato in tempo per dare all'uomo quello che noi ora chiamiamo “Woodoo” e non “Orisha”, che per gli Yoruba (popolo della Nigeria sud-occidentale) è la stessa cosa, ed è anche la religione della civiltà Ashanti del Ghana.

Si ricorda che il regno antico di “Danxomè (corrispondente più o meno l'attuale Benin) era situato nel golfo della Guinea fra due grandi antiche civiltà, vale a dire Ashanti del Ghana e Yoruba di Ifè nella Nigeria del sud, e doveva il suo sviluppo veloce e drammatico alla sintesi di queste civiltà ed al commercio degli schiavi.

Erede delle due grandi civiltà Ashanti e Yoruba, il popolo “Aja-Fon” del regno antico di Danxomè crede che tutte le meraviglie dell’umanità siano persone, tutti esseri che hanno vissuto sulla terra, e ad un certo punto rimangono sulla terra per sempre attraverso l’esistenza del mondo stesso. Dopo la loro morte fisica, si sono trasformati e diventati invisibili. Questa riflessione ci conduce alla definizione della parola Woodoo, che è un’abbreviazione di “Yehwe-vodun o Vodon (vodun, ovvero la deformazione della parola woodoo)

Yehwe .. Ye (ombra o spirito) e Hwe (ristretto, inadeguato)

Ricapitolando, diciamo che un uomo che muore, perde qualcosa della sua entità fisica che fa cambiare la sua natura e condizione. Ha lasciato questo mondo di mortali per un mondo invisibile, dove non morirà mai. Così l’essere si separa da noi e diventa divino, un mediatore fra noi viventi e Dio il creatore. Quindi, il mondo del Yehwe-vodun (il woodoo) è un bel mondo in cui tutto è bello e magnifico. Per la religione animista è l'equivalente del "Paradiso" dei cristiani.

Significa la stessa cosa quando parliamo dello “Orisha, come viene chiamato dagli Yoruba (e da atri popoli della Nigeria del Sud), e non “woodoo”. Se nel tempo il secondo termine prende la precedenza su altre terminologie, ciò avviene a causa della disciplina nell'organizzazione del regno di “Danxomè e per il commercio di schiavi che hanno permesso a questo sistema di credenze di soppiantare l’epoca delle due grandi civiltà che lo avevano fatto nascere. Il "woodoo" è diventato “forte” attraverso un gran numero di entità differenti, allo stesso modo, il woodoo ha acquisito molte diversità quando è stato esportato dagli schiavi del Golfo di Guinea nelle Americhe oltre l’Oceano Atlantico.

Queste "molte diversità", nei secoli hanno contribuito a connotare per gli occidentali una visione prevalentemente negativa del "woodoo" alimentata anche da pratiche che non corrispondono a quelle tradizionali del "Yehwe-vodun".

(Continua, 02/14)
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Articolo di
Maris Davis

Maris Davis

30 gennaio 2017

Viaggio tra le Chiese Pentecostali che proliferano in Campania

A Castel Volturno si contano oggi almeno 40 chiese pentecostali che accolgono la vastissima comunità africana locale, soprattutto nigeriani, tra religione, business in nome di Gesù e sospetti di attività illecite.


È domenica mattina, giorno di preghiera anche per gli immigrati africani di Castel Volturno. In una delle chiese pentecostali africane sorte negli ultimi anni la funzione è cominciata da qualche minuto. I fedeli, vestiti con gli abiti della festa, alzano le mani al cielo e invocano Dio danzando sui ritmi tribali.

Dopo quasi due ore di canti e preghiere arriva il momento dello studio dei testi sacri. Il pastore cita la Bibbia a memoria e ne spiega il significato. Dice che la Bibbia non la si deve interpretare, come invece fanno i cattolici.

"Come può l’uomo, nella sua imperfezione, interpretare la parola di Dio?"

Il pastore Salomon Fadiya, è arrivato a Castel Volturno nel 1997, fondò una delle prime chiese pentecostali africane. Oggi se ne contano almeno quaranta. ​A Castel Volturno ci sono due mondi, il mondo bianco dei 27mila abitanti italiani e il mondo nero degli immigrati africani. Due mondi che coabitano ma non interagiscono. Quanti siano gli immigrati a Castel Volturno nessuno lo sa con esattezza, c’è chi dice 15 mila, altri 20mila. Ciò che è certo è che a Castel Volturno sono riusciti a formare una comunità quasi del tutto autosufficiente. Una piccola Africa nel cuore d’Italia.

E come ogni comunità, anche questa ha i suoi luoghi di culto. Si tratta di ex capannoni industriali, villette abbandonate o semplici locali commerciali riconvertiti per ospitare una chiesa pentecostale. Ogni chiesa ha il suo pastore che si occupa tanto della gestione finanziaria quanto di quella spirituale. "La nostra è una missione" dice uno di loro. "Essere un pastore significa sacrificare la propria vita a Dio". Un sacrificio, però, che può essere ben ripagato.

Secondo la dottrina pentecostale, i fedeli devono fare offerte alla chiesa per pagare le spese, il pastore e i suoi collaboratori. Ma da dove proviene il denaro delle offerte? Gli immigrati di Castel Volturno svolgono lavori saltuari: braccianti agricoli, muratori, colf. Tutti pagati alla giornata con paghe da miseria. Tutti poveri cristi disposti a lavorare per pochi spicci pur di sopravvivere. Ma qui c’è anche chi ha trovato il modo di arricchirsi.

Il declino della camorra locale, decimata da continui arresti e scissioni, ha creato un vuoto di potere riempito dalla mafia nigeriana, che gestisce lo spaccio di droga e la prostituzione sul litorale domizio. Già nel 2003 un’indagine della magistratura portò all'arresto di una cinquantina di immigrati africani. Per la prima volta in Italia fu contestato il reato di associazione mafiosa ad un'organizzazione straniera presente sul territorio italiano. Tra gli arrestati spiccava il nome di Odion Israel Aigbekean, un pastore pentecostale nigeriano che gestiva una chiesa a Castel Volturno e una a Villa Literno.

Quella del pastore Odion era solo una delle tante chiese africane del litorale. Per trovarle basta fare un giro sulla Domiziana, l’antica strada romana che percorre ancora oggi tutta la costa. Fuori da ogni chiesa c’è un’insegna con l’immagine del pastore in primo piano e il nome scritto a caratteri cubitali "Christ The Rock of My Salvation, Fire Word Ministries, World of Hope Ministry". Tutto in inglese, perché l’inglese è una delle lingue più parlate tra le strade di Castel Volturno.

Molti immigrati l’italiano non l’hanno mai imparato. La comunità africana, è completamente abbandonata a se stessa. Non esiste alcuna volontà di integrazione. Così gli immigrati hanno iniziato a fondare le loro chiese. La loro proliferazione è tipica del pentecostalismo. A Castel Volturno, come altrove, una volta cresciute, le chiese pentecostali tendono a scindersi per la volontà dei vari pastori di rendersi indipendenti l’uno dall'altro. A questo bisogna aggiungere che a Castel Volturno la domanda di religiosità è molto elevata.

Gli immigrati nella chiesa cercano risposte ai loro tanti bisogni, spirituali e materiali. Così le chiese hanno cominciato a proliferare anche per rispondere, in maniera diversificata, ai questi bisogni. Questo però non esclude la possibilità che ci siano interessi diversi alla base della proliferazione. Interessi economici o collusioni mafiose, possono senz'altro esistere. Un errore, però, sarebbe generalizzare e criticare tutte le chiese indistintamente.

Castel Volturno, cartellone pubblicitario
di una Chiesa Pentecostale
Per capire come funziona una chiesa pentecostale (non solo a Castel Volturno) bisogna prima di tutto conoscere i pastori che le reggono. Alcune sono ospitate in locali piccoli, con al massimo 20 o 30 posti a sedere, e magari il pastore non è nemmeno a tempo pieno, altre, molto più ricche, sono ospitate in ville di lusso o capannoni con la possibilità di centinaia di posti a sedere.

Come la situazione della "True Worshipers Ministries", una chiesa è ospitata in una delle tante villette per vacanzieri sorte negli anni sessanta. Nella sala principale c’è un piccolo palco con il pulpito, la poltrona del pastore e la scritta dorata “His Glory Reigns”. Alle pareti quadri di paesaggi e rivestimenti in oro. Ma ciò che salta all'occhio è il sistema di pilastri e carrucole al centro della sala.

"Serve per le riprese video", spiega il Vescovo Brodrick Ovienloba. È un ragazzo di circa 35 anni alto poco meno di due metri. Il primo dubbio riguarda il suo titolo. Chi l’ha visto mai un vescovo così giovane? La verità è che nella chiesa pentecostale è particolarmente semplice diventare vescovo. Basta trovare un pastore dello stesso grado disposto ad ordinarti.

Il Vescovo sovrintende sull'attività degli altri pastori. Ma solo se questi ultimi lo richiedono, ma nessun pastore ha mai chiesto i servizi di un vescovo. A differenza di un pastore che dipende dalle offerte dei suoi fedeli un vescovo praticamente vive di rendita.

Parlare di soldi offende il vescovo Brodrick Ovienloba. "Voi italiani credete che le chiese pentecostali siano una copertura per fare soldi. Ma non c’è nessuno scopo di lucro"

"Una caratteristica delle Chiese Pentecostali è l’assoluta autonomia manageriale. Ciò significa che su ricavi e spese un pastore non deve dar conto a nessuno"
Ognuno per sé e Dio per tutti, insomma

L’argomento soldi è un vero tabù nelle chiese di Castel Volturno. Anche il pastore Salomon della Living Hope Ministry tiene le cifre per sé. Spiega però che gestisce il denaro tenendo conto esclusivamente delle esigenze dei suoi fedeli. "Con i soldi delle decime copriamo tutte le spese e cerchiamo di aiutare i fedeli in difficoltà. Ovviamente per me non rimane niente". Come fa allora a sopravvivere? "Qui siamo una grande famiglia, se ho bisogno di qualcosa i fedeli mi aiutano. E poi ci sono le offerte personali"

Guarigioni ed esorcismi fanno parte della sfera religiosa pentecostale, ma c’è chi accusa i pastori di sfruttare le credenze dei propri fedeli per tornaconti personali

"In Africa per fare il pastore basta avere una bibbia e un po' di soldi per le prime spese. Grazie a quella bibbia i pastori assumono un potere psicologico sulle persone quasi illimitato"

Prima di partire per l’Italia alle ragazze nigeriane che credono di dover fare le modelle viene chiesto di “legarsi” ai propri benefattori con un rito magico. Quelli dell’organizzazione si impegnano a sostenere i costi del viaggio mentre le ragazze si impegnano a ripagare il debito e a seguire, sempre e comunque, le indicazioni dei loro benefattori. Qualora il patto venisse sciolto unilateralmente, malattie e catastrofi di ogni sorta si abbatterebbero su di loro e sulla loro famiglia. Arrivate in Italia, le ragazze capiscono che i benefattori sono in realtà sfruttatori e che il loro futuro non è sulle passerelle della moda ma sul marciapiede.

"Le ragazze appena arrivate non vogliono prostituirsi, ma che possono fare? Molte di loro credono per davvero nei riti woodoo". Ma credono anche in Dio. Così chiedono consiglio ad uno dei tanti pastori pentecostali, e il pastore è sempre d’accordo con la mamam, la sfruttatrice della ragazza. E così anche il pastore diventa parte integrante del sistema di sfruttamento. Il pastore spiega alle ragazze che prostituirsi è una cosa brutta ma anche non mantenere le promesse lo è. E poi, se si è legati ai propri sfruttatori con un rito magico, bisogna stare bene attenti. Così le ragazze finiscono per abituarsi alla loro condizione. Credono che sia la volontà di Dio.

La mafia nigeriana è riuscita a costruire la sua roccaforte europea a Castel Volturno

Lo sa bene il giornalista Sergio Nazzaro, uno dei maggiori esperti italiani di mafia africana. Nel suo libro Castel Volturno: reportage sulla mafia africana, analizza le strategie e le attività dei mafiosi nigeriani e ipotizza un legame tra le chiese pentecostali e le attività mafiose.


Chiesa Pentecostale ospitata in un
capannone industriale
"I rapporti tra le chiese e le mafie non sono cosa nuova e riguardano tanto gli ambienti cattolici quanto le altre religioni. Le chiese pentecostali, però, sono più esposte di altre, mancando qualsiasi tipo di organizzazione gerarchica e di controllo"

Non è d’accordo il pastore Salomon, che addirittura nega la presenza della mafia. "Se qui ci sono africani che delinquono, lo fanno per conto degli italiani. E comunque capita spesso che la polizia fermi ragazzi africani e metta loro addosso la droga". Il pastore non lo dice per esperienza diretta ma che tante persone glielo hanno riferito e lui ci crede più ai suoi connazionali che alla polizia.

"L’atteggiamento del pastore è tipico di chi difende a tutti i costi la propria comunità fino a negare l’evidenza". È in questo contesto che le chiese pentecostali possono diventare vere e proprie coperture per affari illeciti. Le chiese, come detto, si finanziano grazie ai fedeli, e più numerosi sono i fedeli e più ricco è il pastore di quella chiesa.

Un coinvolgimento diretto delle chiese pentecostali in attività mafiose deve essere dimostrato caso per caso. Ma non è affatto da escludere. Di sicuro sono coinvolte nel convincere le ragazze nigeriane a non rompere il "patto" e quindi di fatto a prostituirsi.



Articolo a cura di
Maris Davis

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26 gennaio 2017

01 Il Concetto di Woodoo

Il Woodoo e la Religione Animista dell'Africa. Questo è il primo articolo di una serie di articoli che intendo scrivere per far comprendere alcuni principi della religione Animista e quindi del woodoo nato proprio nell'Africa Occidentale. Rituali e tradizioni radicate che sottomettono psicologicamente moltissime ragazze nigeriane vittime di tratta.


Che cosa è il woodoo? Il woodoo si è trasformato in una maldicenza nel lessico sociale e politico negli ultimi anni ed esso è spesso usato come parola associata alla tratta di esseri umani per la prostituzione.

I funzionari dell’immigrazione e la stessa polizia sono spesso imbarazzati dal muro di silenzio contro cui si imbattono quando provano ad interrogare le vittime della tratta ed il motivo dato per questo silenzio consiste nel fatto che le vittime affermano di aver fatto un voto agli dei del woodoo che non possono rompere. Tale è il timore delle conseguenze di rottura di questo voto che nessuna pressione fisica o emotiva può spingere la vittima a parlare o a “cooperare” con le autorità.

Il terrore assoluto di coloro che si sottoposti al giuramento "juju" (woodoo) è così schiacciante che chiunque operi ed eserciti il potere di woodoo è in grado di aver il controllo effettivo della mente delle sue vittime a prescindere dal luogo dove sono. Perciò, se il woodoo può avere tale controllo completo sulla mente e sulla psiche della persona, allora che cos'è il woodoo? È realtà o finzione? E perché la gente ci crede? Che tipo di persone credono nel woodoo? Ed ha realmente i poteri e gli effetti vantati dai suoi adepti?

Non intendo dare una risposta completa a tutte queste domande, ma solo fornire delle brevi, ma chiare linee guida di riferimento per gli attori del progetto, le istituzioni, i governi e le ONG dell’Occidente che sono imbattuti nel mistero del woodoo, nei loro rapporti con le vittime della tratta dall'Africa che sono state portate in Europa e nel mondo occidentale dalla criminalità organizzata per lavorare come schiave sessuali nell'industria lucrativa della prostituzione coatta.

Il woodoo è il fulcro della religione tradizionale africana che viene prima di tutte le altre principali religioni del mondo, prima anche del Cristianesimo, dell’Islam o dell’Ebraismo. Per capire il woodoo africano, è inoltre importante capire la fede e la spiritualità di altre culture e civiltà esterne all'Africa.

Secoli fa, molti paesi in Europa hanno avuto loro forma di "woodoo" insieme a santuari dove hanno pregato e fatto sacrifici, compresi i sacrifici umani. I Greci ed i Romani sono famosi per questo, i resti dei loro edifici e dei loro templi sono ancora oggi visibili.

Poi, in epoche più recenti, gli inglesi impiccavano e bruciavano persone che consideravano "streghe" che usavano i loro poteri diabolici per far del male alla gente o persino alla nazione. Nel medioevo europeo era l'inquisizione cattolica a "bruciare" eretici e streghe. I giapponesi, compresa la loro elite, vanno ancora nei santuari per pregare, fare sacrifici e venerare i loro dei ed antenati.

Venerare e cercare il contatto con gli antenati morti è ancora oggi una pratica comune fra molti cittadini europei. Gli stessi cattolici pregano i loro defunti per ricevere grazie e aiuti divini.

Più di un miliardo di cinesi hanno celebrato l’anno del ratto (l'ultimo è stato nel 2008 e il prossimo sarà nel 2020) che è l’anno più importante nel loro calendario. La maggior parte del miliardo di indiani di religione indù non scherza sul culto delle loro divinità mucca e scimmia.

Da quando è apparso sulla terra l'uomo ha sempre adorato "qualcosa", "qualcuno", una "divinità", cioè quello che non era visibile, ma nonostante ciò molto reale e tangibile per loro. Si stima che oltre il 90 per cento dell’attuale popolazione mondiale creda in qualche forma di religione.

Che siano tutte sbagliate? Che siano tutte follìe? È da sciocchi credere in qualcosa che non è nulla? È mai possibile che ogni generazione, passata e presente, sia così ingenua da credere ed adorare qualcosa che non esiste? Rispondere affermativamente a queste e domande presupporrebbe un’impudenza straordinaria. È considerando questo background che si può apprezzare e trovare il significato alla religione tradizionale africana, comunemente denominata "woodoo"

Le stesse tre principali religioni monoteiste credono in un Dio "invisibile", che si manifesta solo nei pensieri, nella fede e nelle preghiere.
  • Il Dio dei cattolici e dei cristiani in genere è il Dio del "perdono",
  • Il Dio dei mussulmani è invece il Dio della "vendetta",
  • Il Dio degli ebrei è, al contrario, un Dio di "giustizia".

Impero Ottomano, XIV secolo d.C.
Nell'Africa Sub-Sahariana le religioni occidentali sono state introdotte dai primi missionari tra il XVI e il XVII secolo, ma le prime comunità di africani "convertiti" erano piccole e minoritarie, poi con la colonizzazione, le moderne religioni occidentali furono imposte in modo massiccio. Ecco perché oggi, soprattutto nell'Africa Sub-Sahariana, si incontrano intere comunità che pur professandosi cristiani, mantengo i culti tradizionali che a volte si sovrappongono a quelli classici delle religioni occidentali.

Diverso invece il discorso per i mussulmani. Già dall'epoca di Maometto l'Africa mediterranea di era islamizzata tanto che già dal 1300 d.C. faceva parte dell'Impero Ottomano e le prime carovane di mercanti arabi attraversavano il deserto facendo conoscere l'Islam alle comunità di africani che popolavano la parte meridionale del deserto del Sahara, che tuttavia, già da sempre, seguivano la loro cultura e religione tradizionale.

(Continua, 01/14)
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Maris Davis

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13 gennaio 2017

Litorale Domitio, la camorra e le schiave nigeriane del sesso a dieci euro a prestazione

Prostituta nigeriana sulla "Via Domitiana"
Uno studio del "Centro immigrati Fernandes" di Castelvolturno calcolò che nel 2000 c’erano circa 600 ragazze nigeriane a prostituirsi sulla strada Domitiana, un’arteria che congiunge il basso Lazio con la provincia di Napoli. Sono poco più di 30 km di strada dove le prostitute si succedono una dietro l’altra come in una processione.

A distanza di quasi 17 anni è cambiato poco. Che faccia freddo, piova, ci sia arsura e sole cocente, loro sono sempre lì a difendere il metro quadrato di marciapiede. Perché pagano anche quel metro quadro: 300 euro al mese da consegnare alla mafia nigeriana che qui si spartisce il traffico di droga e della prostituzione con il clan dei casalesi.

Impongono anche il prezzo della prestazione. Deve essere basso, per attirare più clienti. Costano 10 euro a prestazione. E così a tutte le ore c’è un continuo via vai di clienti. Accettano qualsiasi cosa, non possono permettersi di rifiutare niente, dal sesso senza protezione, al sesso di gruppo, ai video girati con il telefonino durante l'atto sessuale, al sesso con altre donne, ecc.. Sulle spalle hanno un debito che si aggira intorno ai 40-50 mila euro. È il loro prezzo, cioè quanto in Africa è stato pagato al mercato delle schiave.

In Italia sono accolte da una sorta di "maitresse" che viene chiamata “mamam. È quella che si occupa della loro accoglienza. Le dà una sistemazione, promette loro un lavoro e poi le spedisce sulla strada. Chi si rifiuta viene violentata dai capi nigeriani, sottoposta ai riti del woodoo. Molte di loro hanno segni permanenti sul volto e sul corpo, cicatrici profonde frutto delle tribalità a cui sono sottoposte, ma anche di sigarette spente direttamente sulla pelle (sulle braccia, sul seno, sulle cosce)

Le prostitute sulla via Domitiana e il pizzo pagato alla Camorra. Le ragazze per occupare il marciapiede versano 300 euro al boss. E chi non lo fa viene gambizzata

Sul marciapiede si raccontano tante storie per impietosire i clienti. Qualsiasi cosa va bene pur di strappare quei 5 euro in più. La mamma malata, il padre in carcere, il fratello drogato. Nessuna però dice "aiutami perché devo pagare la camorra". Il cliente non va spaventato. È la prima regola che i boss della prostituzione hanno inculcato nelle menti di queste ragazze che comprano per lo più dalla Nigeria.

Al mercato degli esseri umani hanno un valore di 10, 15 mila euro. Per arrivare a battere sulle strade italiane contraggono un debito con il «magnaccia» che si aggira sempre intorno ai 50 mila euro. Poi va pagata la mafia locale. Per occupare il marciapiede: 200 o 300 euro al mese. Sulla Domitiana funziona così. Non sfugge nessuna.

Rachet della prostituzione. Prima erano solo africane. Ora la camorra casalese ha ampliato l'offerta: ucraine, bulgare, lituane, polacche. La pelle bianca costa un poco di più e frutta il triplo delle africane. Trenta euro per fare sesso in auto invece di 10 euro. Cinquanta euro per entrare nelle villette che la camorra mette loro a disposizione. Si trovano nei meandri di vicoli della litoranea domitia. Strade desolate dove non arriva nemmeno il postino. Così evitano i controlli dei carabinieri.

I clienti pare siano raddoppiati. Sono scantinati pieni di muffa. D'inverno si gela, d'estate si muore dal caldo. Molte volte manca anche la luce, ti fanno strada con le candele. Vivono in tuguri. In cinque o sei per appartamento, se così si può chiamare. Non c'è luce ma spesso non c'è nemmeno l'acqua. Al catasto risultano abitazioni disabitate, inesistenti, abusive. Ma per loro sono tutto. Le arredano con un letto un frigo e un water. Il resto è superfluo. Chi è fortunata trova nelle discariche sulla strada scaldabagni arrugginiti, pezzi di arredi o qualche sedia. Li mettono in casa. Le spese vanno ottimizzate.

A metà mese arrivano due emissari a riscuotere. Qualcuna prova a ribellarsi, a protestare. "La strada è di Dio" dicono. Le picchiano, le violentano, le sfregiano con il coltello. Quasi tutte hanno cicatrici sulla faccia e sulle gambe. È il primo avvertimento. Poi vengono gambizzate. Uno o due colpi di pistola mentre stanno in strada. Devono capire che se non pagano la camorra, su quel marciapiede non possono stare. Almeno non in piedi.

Violenze e minacce. È capitato ancora una volta la scorsa settimana. Sempre sulla Domitiana. Stavolta è toccato a una bulgara di 32 anni. Da queste parti il casco è un tabù. Lo vedi indossato principalmente dagli emissari della camorra. Casco integrale e moto. Così si è avvicinato alla donna l'ennesimo ras locale. Due proiettili nelle gambe ed è andato via.

Incontriamo Faith. È una ragazza nigeriana di 22 anni. In Italia da due anni. Sulla strada, la Domitiana, si fa chiamare Naomi per la somiglianza con il suo idolo: la Campbell. All'inizio aveva provato anche lei a sfuggire al racket del marciapiede. La camorra in questi casi si appoggia alla mafia nigeriana. Oltre a minacciarle sul posto hanno collegamenti con la criminalità dei Paesi di origine. Lì usano metodi ancora più sbrigativi.

A Faith mandarono una foto sul cellulare con un machete sotto la gola della mamma. Da allora è precisa nei pagamenti. Ci mostra ventimila euro versati su un conto tramite money transfert. Le mancano altri 30 mila euro. In un paio d'anni conta di finire. Le hanno promesso di darle i documenti. Da poco è riuscita ad ottenere la tessera sanitaria. Lei, come tutte le altre africane, si rivolgono allo stesso avvocato. È un legale di Napoli, mafioso anche lui. Ogni tanto le ragguaglia sullo stato dei loro documenti. E le ricorda quanto devono pagare ancora.

Maria ci racconta di essere stata costretta a prostituirsi sette lunghi anni per ripagare il suo debito. Ai genitori dissero che aveva le qualità per fare la segretaria in Italia, conosceva l’inglese e sapeva scrivere. Dopo due settimane si ritrovò sulla strada accanto a una ragazzina. «Non aveva nemmeno il seno, era piccola proprio, una bambina. La violentarono e poi la portarono sulla strada». Di ragazzine come le descrive Maria ne abbiamo incontrate tante. Addirittura una di 13 anni che si prostituisce da quando ne aveva 12.

È un traffico, questo, che va avanti da anni, ininterrotto e incontrastato. Lo sa bene Renato Natale. È l’ex sindaco anti-camorra di Casal di Principe. Oggi dedica la sua vita di medico al centro Fernandez, unico punto di riferimento per migliaia di immigrati. Le minacce sono pane quotidiano, ormai ci ha fatto l’abitudine. "L’ultima lettera l’ho trovata sotto casa. Mi intimava di farmi i fatti miei e di ricordarmi che avevo famiglia" La sua è una vera e propria vocazione per gli immigrati. Li aiuta, li cura, li segue ma soprattutto ci parla.

"Sembra incredibile, ma queste persone, soprattutto se vittime della prostituzione, hanno bisogno di parlare, di essere considerate esseri umani e non della merce". Merce, infatti, sono merce sia per la camorra che chiede una sorta di parcheggio per l’occupazione del territorio (a patto che stiano lontane da dove risiedono i boss) che per i nigeriani, i quali le sfruttano pagando una percentuale sui guadagni ai casalesi.

Oggi, per dare meno nell’occhio, le mafie tendono a togliere dalla strada queste ragazze. Non è un caso che su un noto sito di incontri, la maggior parte delle prostitute venga da questa zona: Castelvolturno, Licola, Varcaturo. La "mamam" prepara l’annuncio standard per tutte, le fotografa e le mette on line.

Ma la camorra è andata oltre. Ha dato in gestione ai nigeriani alcune villette che si trovano proprio a ridosso della Domitiana, in modo da non perdere la clientela di questa strada. Ville nuove e apparentemente abbandonate dove alle prostitute sono riservati i sottoscala. Al primo piano vive il "magnaccia", lo sfruttatore. Sono villette controllatissime, sia dentro che fuori.

Droga e prostituzione vanno di pari passo e così nell'ultimo periodo si sono diffuse le "connection house". Sono tuguri, stanzini di miseri appartamenti affittati per 5 euro l’ora da immigrati, dove oltre alle prostitute è possibile trovare ogni sorta di droga. Ma quello che respiriamo entrando è solo una forte puzza di miseria ed emarginazione.


Necessario che la confisca dei beni per i protettori nigeriani e per le mamam sfruttatrici venga esteso anche ai beni che questi possiedono in Nigeria dove viene "nascosto" il grosso dei loro guadagni illeciti. L'accordo Italia-Nigeria, firmato nel febbraio 2016, dovrà obbligatoriamente prevedere anche questo.


La nostra proposta per ridurre drasticamente lo sfruttamento sessuale
L'Italia si dia finalmente una legge sulla prostituzione
Una legge che preveda una sanzione significativa per i clienti, così come prevede anche il disegno di legge 3890 presentato alla Camera dei Deputati lo scorso giugno dall'onorevole Caterina Bini (Partito Democratico)

È nostro convincimento, infatti, che "punire" chi acquista sesso sia la strada corretta per ridurre lo sfruttamento, così come ha già dimostrato la legge svedese e quella recente approvata in Francia, una linea raccomandata anche dall'Unione Europea.

Nell'immediato togliere tutte le ragazze sfruttate, o a rischio sfruttamento, dalle strade
Prevedere per quelle irregolari che non accettano di denunciare i loro sfruttatori, un piano di rimpatrio. Per le nigeriane esiste già una accordo bilaterale con la Nigeria appena sottoscritto, non ci dovrebbero essere problemi affinché venga anche messo in pratica da subito.
Prevedere per tutte le altre, sia per quelle che denunciano gli sfruttatori, sia per quelle in attesa dell'esito della domanda di asilo, dei programmi di protezione, e impedire a queste ragazze di mettersi di nuovo in contatto con sfruttatori e mamam varie.

Prevedere per gli sfruttatori e per le "mamam" la confisca dei beni anche nei paesi di origine. Con la Nigeria esiste già, in questo senso, una bozza di accordo.


Il Calendario delle
Ragazze di Benin City 2017

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Articolo di
Maris Davis
Maris Davis

11 gennaio 2017

Il lungo corso della decolonizzazione dell'Africa

Nel 1945 gli imperi coloniali erano arrivati a comprendere quasi tutta l'Africa. Vent'anni dopo la maggior parte del continente (eccettuati i territori portoghesi) aveva raggiunto l'indipendenza.

Un'inversione così rapida e totale di un processo di colonizzazione che era andato affermandosi lungo un arco di tempo più che secolare pone di fronte a due possibili spiegazioni. In base alla prima, gli Stati imperiali decisero che le colonie non erano più convenienti e preferirono smembrare i propri imperi. In base alla seconda, furono le popolazioni delle colonie a sbarazzarsi del dominio imperiale o comunque a rendere il suo protrarsi talmente difficoltoso e problematico che gli Stati colonizzatori preferirono cedere loro l'esercizio del potere politico. Nella realtà dei fatti, nessuna di queste due spiegazioni è in grado di reggersi da sola: è più verosimile una loro combinazione.

Il punto di svolta per tutti gli Stati europei, eccettuato il Portogallo, si ebbe tra il 1949 e il 1960 e fu determinato dal concorso in contemporanea di eventi che si svolsero nelle colonie e di situazioni in cui si trovarono a versare gli Stati colonizzatori. Da una parte il rapido diffondersi di movimenti nazionalisti nei paesi africani sollevò in Europa questioni concernenti sia la convenienza sia la moralità di una loro repressione. Gli anni Cinquanta videro la nascita in Gran Bretagna e in Francia di potenti movimenti antimperialisti che per la prima volta misero in discussione la colonizzazione come fatto in sé. Tanto più la decolonizzazione s'impose come un problema urgente, quanto più la guerra da cui gli alleati occidentali erano usciti vittoriosi si era caratterizzata come una lotta combattuta contro la tirannide e a sostegno dei diritti dei popoli oppressi.

Dall'altra parte, l'importanza economica delle colonie per i loro possessori declinò rapidamente, all'incirca a partire dal 1951, a mano a mano che la ricostruzione europea post guerra mondiale, procedeva con successo e che il prezzo dei prodotti di esportazione coloniali andava calando. L'Europa non aveva più bisogno di mantenere sulle colonie lo stesso grado di controllo che aveva esercitato in passato, al contrario cominciò a farsi sentire il prevedibile peso del sostegno economico ai territori coloniali.

Il risultato della combinazione di questi fattori fu che all'inizio degli anni Sessanta tutte le principali potenze coloniali adottarono una politica di decolonizzazione che prevedeva il trasferimento del potere a tutte le colonie, da attuare in tempi brevi e senza le molte riserve espresse in passato sulla loro capacità di amministrare efficientemente i propri affari. La decolonizzazione può dunque essere spiegata, entro certi limiti, con un mutamento radicale nell'atteggiamento degli europei.

Tuttavia il momento in cui tale mutamento è avvenuto e la velocità con cui si è attuato sono stati condizionati in ultima analisi dal grado di resistenza che le potenze coloniali hanno incontrato nei rispettivi possedimenti. La composizione dei fattori che determinarono il corso degli eventi fu diversa da caso a caso. Alla fine la decolonizzazione ebbe luogo principalmente perché gli Stati imperiali decisero che, tutto sommato, per il futuro avrebbero potuto ottenere di più lasciando le rispettive colonie da amici piuttosto che da nemici, per quanto molte di esse fossero impreparate all'indipendenza.

Il panafricanismo
Sul nazionalismo africano un'influenza determinante fu esercitata a suo tempo dall'ideologia del panafricanismo. Nato alla fine del 19° secolo come manifestazione di solidarietà tra la popolazione di origine africana trapiantata nel Nuovo Mondo, il panafricanismo si trasformò nel corso del secolo successivo, con l'inizio del processo di decolonizzazione dell'Africa, in movimento tendente a realizzare l'unità politica del continente africano.

Tra gli obiettivi intorno ai quali si coagulò originariamente l'ideologia africanista, i più significativi erano la riabilitazione delle civiltà africane, la restaurazione della dignità dell'uomo di colore e la celebrazione del ritorno alla madrepatria da cui era partita la diaspora. L'africanismo trasse beneficio da ogni nuova scoperta delle entità che erano state alla base dello sviluppo culturale dell'Africa nella storia, in termini di strutture sia religiose sia socio-politiche, così come dall'esperienza comune a quasi tutta l'Africa della spoliazione coloniale.

Questi convincimenti consentirono agli intellettuali e ai leader politici che vi aderirono di trascurare ogni elemento di diversità e di conflitto tra le popolazioni africane. L'esperienza aveva insegnato loro, spesso amaramente, che ciò che li univa indissolubilmente, il colore della pelle, era molto più importante nel mondo che conoscevano di tutto ciò che poteva dividerli. Questo significato dell'africanismo, come scudo e come speranza per i perseguitati, si sarebbe conservato al di là di ogni scoraggiamento o sconfitta e il concetto politico di africanismo avrebbe preso corpo come cornice delle agitazioni politiche e faro di un futuro libero.

Tra i precursori del movimento viene generalmente ricordato Henry Sylvester Williams, un avvocato di Trinidad che dedicò gran parte della sua vita a sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale contro lo sfruttamento dei neri da parte dei coloni boeri e inglesi in Africa australe. Williams organizzò un incontro a Londra nel 1900 che servì da modello a una serie di convegni che tra il 1919 e il 1945 sancirono l'affermazione del panafricanismo.

L'indirizzo conclusivo del meeting di Londra fu scritto da uno storico afroamericano, destinato a diventare una delle figure carismatiche del movimento, William Burghardt Du Bois, e si apriva con un brano diventato celebre: "Il problema del ventesimo secolo è il problema del colore, la questione di quanto le differenze di razza diventeranno la base per negare a oltre la metà del mondo il diritto di condividere, fino al limite delle loro capacità, le opportunità e i privilegi della civiltà moderna"

Durante il convegno di Parigi del 1921 fu rivolta una petizione ai partecipanti alla Conferenza della pace per chiedere l'applicazione all'Africa del principio dell'autodeterminazione dei popoli. A Londra nel 1921 fu elaborata una Dichiarazione al mondo in cui si proclamava "l'assoluta uguaglianza delle razze dal punto di vista fisico, politico e sociale". I congressi di Londra (1923) e di New York (1927) videro la partecipazione di un numero di delegati sempre maggiore; a essi fece seguito la costituzione a Londra dell'International African service bureau (1937), quindi della Pan African federation (1944), organismi in cui si formarono molti dei futuri politici nazionalisti africani.

L'ultimo dei congressi panafricani, che si tenne a Manchester, in Gran Bretagna, nell'ottobre 1945 e vide la presenza di 90 delegati più altri partecipanti, si spostò su un terreno completamente nuovo: esso portò il panafricanismo dalla diaspora nera al continente d'origine. Du Bois era presente, come lo erano alcuni eminenti attivisti dei Caraibi, ma c'erano anche leader politici dell'Africa, compresi alcuni che dovevano diventare presidenti di repubbliche indipendenti: Kwame Nkrumah della Costa d'Oro (Ghana dopo il 1956), Jomo Kenyatta del Kenya e Julius Nyerere della Tanzania. Nel congresso di Manchester emersero per la prima volta l'esigenza dell'indipendenza dai regimi coloniali e il nazionalismo: "Siamo determinati a essere liberi se il mondo occidentale è ancora determinato a governare il genere umano con la forza, allora gli africani, come ultima risorsa, potranno essere costretti ad appellarsi alla forza nell'impresa di conseguire la libertà"

A partire dal 1957-58, con l'avvio del processo di decolonizzazione dell'Africa a sud del Sahara, il panafricanismo, inteso come cammino verso l'unificazione politica delle nuove entità statali indipendenti, sembrò avere una concreta attuazione pratica. Accra divenne centro della attività panafricana ospitando, per iniziativa di Nkrumah, la prima conferenza degli Stati africani indipendenti (aprile 1958) e la prima conferenza dei popoli africani (dicembre 1958), dalle quali furono lanciate le richieste dell'indipendenza immediata e della costituzione degli Stati Uniti d'Africa.

L'ideale panafricano ispirò la nascita di raggruppamenti regionali, alcuni dei quali ebbero però breve durata per l'immediato insorgere di sentimenti nazionalistici o di particolarismi tribali. Inoltre nel continente si manifestarono divisioni circa la linea da seguire nei confronti dei paesi occidentali e delle ex potenze coloniali: ai paesi ‘riformisti', riuniti nel gruppo di Brazzaville, si contrapposero quelli ‘rivoluzionari' del gruppo di Casablanca; tale contrapposizione sembrò superata con la nascita, il 25 maggio 1963 ad Addis Abeba, dell'OUA (Organizzazione dell'unità africana).

La nuova organizzazione trovò un elemento di coesione nella condanna di ogni tipo di colonialismo, impegnandosi per accelerare l'acquisizione dell'indipendenza da parte dei territori ancora soggetti alla dominazione portoghese. Posizioni unitarie furono espresse anche nel condannare i paesi che praticavano una politica di aperta discriminazione razziale (Rhodesia e Sudafrica).

Vincolata strettamente per principio al rispetto della sovranità e alla non-ingerenza negli affari interni delle nazioni, in ossequio alla lotta di decolonizzazione e alla necessità di evitare indebolimenti dei fragili Stati africani, l'OUA mostrò minore coesione quando dovette affrontare le dispute confinarie tra Stati o le numerose guerre civili che laceravano il continente, riconoscendo di fatto e di diritto l'intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione.

I tempi dell'indipendenza
Il 1960 è stato chiamato l'anno dell'Africa. Nel corso di quell'anno infatti ben 17 paesi ebbero accesso all'indipendenza, a conclusione di processi politico-costituzionali diversi, in taluni casi lungamente maturati con la responsabile partecipazione e la consapevole pressione delle popolazioni, o almeno delle élite locali; in altri casi affrettati per rispondere alle istanze anticolonialiste ormai dominanti, o venuti a compimento per l'applicazione di uno stesso iter a territori di differente sviluppo politico.

Rispettivamente il 1° gennaio e il 27 aprile fu proclamata l'indipendenza di due territori retti in amministrazione fiduciaria dalla Francia: il Camerun, che dal 1957 godeva dell'autonomia interna, e il Togo, autonomo dal 1956; il 30 giugno quella del Congo già belga, a conclusione di una evoluzione politico-costituzionale accelerata a partire dal 1959; il 26 giugno divenne indipendente la Somalia già britannica e il 1° luglio, in anticipo rispetto al previsto termine dell'amministrazione fiduciaria che era stata affidata dall'ONU all'Italia, quella già italiana; la Nigeria nacque il 1° ottobre, dopo un complesso travaglio costituzionale, quale Stato federale. In varie date fra il giugno e il novembre, in base alla possibilità aperta da una modifica della Costituzione della Comunità francese, divennero indipendenti le repubbliche già autonome in seno alla Comunità (Madagascar, Dahomey, Niger, Alto Volta, Costa d'Avorio, Ciad, Repubblica Centrafricana, Congo, Gabon, Senegal, Mali, Mauritania).

Il processo di decolonizzazione andò ulteriormente affermandosi nel corso degli anni Sessanta: il 27 aprile 1961 divenne indipendente la Sierra Leone e il 9 dicembre il Tanganica, già amministrazione fiduciaria della Gran Bretagna; dal territorio del Ruanda-Urundi, in amministrazione fiduciaria belga, nacquero il 1° luglio 1962 il Rwanda e il Burundi. La proclamazione dell'indipendenza dell'Algeria (3 luglio) segnò la vittoria politica di un movimento nazionalista che aveva scelto, dal novembre 1954, la via della lotta armata conquistando progressivamente un'estesa adesione popolare. Sempre secondo lo schema di evoluzione politico-costituzionale propria dei territori dipendenti dalla Gran Bretagna, ma con maggiore travaglio per le particolari situazioni locali, giunsero all'indipendenza l'Uganda (9 ottobre 1962) e il Kenya (12 dicembre 1963)

Ancor più difficile la decolonizzazione dei territori che dal 1953 costituivano la Federazione dell'Africa centrale (concepita come strumento per il predominio della minoranza bianca) e della quale perciò i leader africani chiedevano la dissoluzione. Il Nyasaland divenne indipendente il 6 luglio 1964 con il nome di Malawi; il 24 ottobre fu la volta della Rhodesia del Nord, che assunse il nome di Zambia. Nella Rhodesia meridionale il governo locale rifiutò ogni concessione politica alla maggioranza nera, contrastando gli stessi orientamenti della madrepatria, sino a proclamare unilateralmente, l'11 novembre 1965, l'indipendenza, ovviamente non riconosciuta dalla comunità internazionale.

La decolonizzazione proseguì negli anni Sessanta nei restanti territori britannici: il Gambia accedeva all'indipendenza il 18 febbraio 1965, il Botswana il 30 settembre 1966, il Leshoto il 4 ottobre, Maurizius il 12 marzo 1968, lo Swaziland il 6 settembre 1968; nello stesso anno conseguiva l'indipendenza la Guinea Equatoriale.

Nei territori portoghesi i movimenti nazionalisti avevano iniziato la guerra armata il cui epilogo vittorioso si avrà molto più tardi, grazie anche alla svolta politica verificatasi in Portogallo nel 1974 (fine della dittatura Salazar). L'indipendenza della Guinea Bissau fu proclamata unilateralmente il 24 settembre 1973 e riconosciuta il 10 settembre 1974; quella del Mozambico il 25 giugno 1975; quella delle isole del Capo Verde il 5 luglio 1975; quella di São Tomé e Principe il 12 luglio 1975 e quella dell'Angola l'11 novembre 1975. Nello stesso 1975 la Spagna si ritirò dal Sahara occidentale, favorendone la concordata spartizione fra il Marocco e la Mauritania, mentre le Isole Comore raggiungevano l'indipendenza il 6 luglio 1975, seguite dalle Isole Seychelles il 28 giugno 1976.

Limiti della decolonizzazione
All'indomani della decolonizzazione, praticamente conclusa alla fine degli anni Settanta, la politica africana si spostò dalla prospettiva della lotta anticoloniale per concentrarsi sugli assetti interni. L'ideale di solidarietà e di unità dell'Africa, importante fattore ideologico nella lotta anticolonialista, non trovò, salvo pochi casi, concreta attuazione nel processo di decolonizzazione: l'indipendenza fu conseguita conservando il quadro della spartizione coloniale.

Assunta con l'indipendenza la diretta e piena responsabilità del proprio destino, i paesi africani si trovarono di fronte a molteplici problemi, alla cui base vi erano le loro condizioni di sottosviluppo, derivate da un insieme di fattori essenzialmente connessi alla stessa vicenda della dominazione coloniale. Questi problemi hanno messo i paesi africani nelle condizioni di dipendere dall'aiuto finanziario e tecnico esterno (delle ex nazioni colonizzatrici o di altri Stati), ma questi aiuti, inseriti in un sistema economico rispondente agli interessi dei paesi industrializzati, non sono riusciti ad avviare il progresso dell'Africa.

Alla valutazione ottimistica della politica degli aiuti e, in generale, di tutto il rapporto fra i paesi ricchi e l'Africa, se ne contrappone dunque una critica, secondo la quale il sistema occidentale riesce a esercitare, attraverso i meccanismi dell'economia mondiale e in particolare attraverso gli aiuti, un'ingerenza e un controllo, il cosiddetto neocolonialismo, sui paesi in via di sviluppo e specialmente su quelli africani.

Con queste difficoltà si sono intrecciate quelle connesse alla tradizione, anche remota, del mondo africano e alle conseguenze del periodo coloniale. I nuovi Stati dell'Africa sono nati dal processo di decolonizzazione senza rispondenza con un sentimento di identità nazionale diffuso nell'intera popolazione. La ‘costruzione della nazione' ha incontrato molteplici resistenze in quasi tutti i paesi: eterogeneità della composizione etnica e conseguenti rivalità tribali e regionali; contrapposizione fra popolazioni delle regioni costiere e quelle delle zone interne; diversità di religioni; pluralità di lingue, ostacolo per la gestione delle comunicazioni sociali (il che ha generalmente portato all'adozione come ufficiale della lingua dell'ex colonizzatore); presenza di minoranze non africane, asiatiche o europee. Di fronte a queste difficoltà il gioco delle forze politiche e sociali si è svolto secondo linee e sviluppi in parte simili, in parte diversi nei vari paesi.

Per effetto della decolonizzazione, si sono formati Stati deboli e vulnerabili, la cui stabilità è resa incerta dalle frontiere controverse, dalla mancanza di una chiara coscienza nazionale e dal carattere provvisorio delle istituzioni inaugurate al momento dell'indipendenza. All'interno delle varie nazioni è prevalsa la tendenza all'autoritarismo, in realtà politico-costituzionali caratterizzate dall'esistenza di un partito unico, al quale si è giunti di solito per una graduale evoluzione dal sistema pluripartitico, ereditato al momento dell'indipendenza dal modello del colonizzatore, attraverso la fase del bipartitismo. Il partito unico, che in molti Stati prevale di fatto sugli altri organi costituzionali, ha trovato giustificazione nella necessità di evitare l'espressione, attraverso più partiti, di tendenze centrifughe e particolaristiche, ostacolo alla integrazione nazionale e allo sviluppo economico-sociale.

I limiti dell'indipendenza africana sono apparsi con maggior evidenza perché l'ultima fase della decolonizzazione, la cosiddetta ‘seconda decolonizzazione', sembrava aver fatto tesoro dell'esperienza precedente puntando a un'indipendenza che non si fermasse alle soglie della sovranità ma cercasse di trasformare in profondità le strutture sociali. Questo era soprattutto il programma dei movimenti di liberazione delle colonie portoghesi, pervenute all'indipendenza dopo la caduta del regime salazarista, le quali faticarono non poco, per cause interne e soprattutto esterne, a tradurre in pratica i principi di cui i partiti-eserciti di liberazione erano portatori.

La crisi del modello dello Stato nazionale
L'autodeterminazione in Africa è stata concepita e attuata Stato per Stato sulla base dello spazio territoriale, spesso artificioso, stabilito dal colonialismo. Temendo una corsa generale verso una seconda spartizione, i governi africani e per essi l'OUA hanno rinunciato a cercare soluzioni più rispondenti ai caratteri storici, etnici e culturali. Si spiega così la scarsa udienza che ha avuto in Africa, per esempio, la lotta di liberazione dell'Eritrea, ritenuta parte di uno Stato indipendente, l'Etiopia. L'OUA si è sempre opposta alle guerre di secessione e ai tentativi più o meno violenti di rimodellare la mappa geopolitica del continente in vista di una maggiore coincidenza fra statualità e nazionalità.

Nell'ultimo decennio del Novecento la carta politica dell'Africa non ha più presentato quella nutrita serie di variazioni, con il cambiamento dei nomi di Stati e di città e con il trasferimento di molte capitali, che aveva accompagnato tutta la fase della decolonizzazione. Ma questo non ha affatto significato che il continente abbia raggiunto un periodo di stabilizzazione politica: anche il volgere del secolo 20° è stato costellato da una cospicua serie di cambiamenti, spesso cruenti, dei governi, nonché di scontri di fazioni, di lotte tribali. Alcuni di questi conflitti, come quello che ha opposto le etnie hutu e tutsi nel Ruanda e nel Burundi, hanno varcato la soglia del genocidio.

La caratteristica più vistosa dell'evoluzione politica del continente africano sembra comunque essere stata una sorta di regressione a forme preterritoriali, premoderne, dell'esercizio del potere politico. Che gli Stati africani, ricalcati sul modello nazionale tipico dello Stato europeo, presentassero una rimarchevole debolezza strutturale proprio negli aspetti fondativi (tradizione, legittimità della sovranità, lealtà della cittadinanza, coerenza di popolazione e territorio) era chiaro prima ancora che si completasse il processo di decolonizzazione. La prima fase di vita indipendente, corrispondente alla prima generazione di leader, vide comunque gli Stati africani adattarsi, talvolta anche con apparente successo, al modello europeo.

Ma la scomparsa delle figure carismatiche di prima generazione, il fallimento dei processi di sviluppo economico e socio-politico, la persistenza di forme di identità estranee alla concezione moderna dello Stato e una conflittualità interna niente affatto sopita hanno evidenziato la difficoltà del tentativo di esportare in Africa (in particolare nell'Africa nera) il modello dello Stato-nazione. Nel corso degli anni Novanta una serie di eventi tragici ha esplicitato la crisi.

In molti casi l'elemento venuto più rapidamente meno è stato proprio il confine territoriale, al quale peraltro quasi mai, in Africa, si è potuto assegnare un valore affine a quello che ha avuto in Europa: esso appare ormai completamente travolto da dinamiche politiche che vedono lo strumento principale non nell'organizzazione del territorio, ma in quella della popolazione, secondo un modello tipico della realtà etnica e tribale risalente ai secoli precedenti l'intromissione europea in Africa.

Carta dell'Africa nel 1890
Attraversato da flussi di ogni genere, di persone (nomadi, migranti, profughi, guerriglieri) come di beni, in forme lecite o più spesso illecite, il confine in Africa sembra aver perduto le sue funzioni e la sua riconoscibilità, mentre poteri sempre più autonomi dallo Stato territoriale cercano di garantirsi un accesso al mercato mondiale, spesso sostenuti in questo tentativo da interessi del tutto esterni al continente.



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Articolo di
Maris Davis

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