22 settembre 2016

Le Guerre dimenticate dell'Africa e conflitti ignorati

Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Ucraina, ecco i nomi dei paesi travolti dalle guerre di cui maggiormente si sente parlare.

Motivi geopolitici, strategici e culturali, portano i riflettori a concentrarsi su questi conflitti piuttosto che su altri. Come in un moto di ciclicità, l'attenzione mediatica compie un anello di informazione centrifugo, un circuito d'interesse che porta ad avere notizie costanti su determinate questioni: l'Isis e i talebani, Al Qaeda e la questione libica, e le tensioni in Ucraina.

Ma ovviamente se da un lato la concentrazione sale, dall'altro questa diminuisce, fino quasi ad arrivare a un parossismo d'oblio mediatico che porta a coniugare il termine "guerre dimenticate" per altri conflitti, magari più devastanti, ma che non rientrano nel circuito mediatico-informativo internazionale.

La Giornata della Pace e le Guerre dimenticate. Scontri armati al limite tra guerra, proteste e terrorismo. Necessario prendere coscienza delle migliaia di morti silenziose. Andate per strada e chiedete a qualcuno quante guerre sono in corso nel mondo oggi. Non c'è una risposta esatta, quindi nessuno darà la risposta giusta, perché è sempre più difficile stabilire i confini tra guerra, rivolta, terrorismo, attacco e difesa, ma quello che è certo è che in oltre trenta Paesi del mondo si combatte e si muore in conflitti armati che coinvolgono, tra alleanze e supporti indiretti, un totale di una cinquantina di Stati.

In Siria, in Afghanistan, in Iraq e nella parte dell'Africa in cui opera Boko Haram (Nigeria, Niger, Ciad e Camerun), si sono registrate il maggior numero di morti nell'ultimo anno. La guerra in Siria, che coinvolge in un modo o nell'altro tutte le grandi potenze mondiali, ha già causato circa 35.000 morti quest'anno, tra cui molti civili. Dallo scoppio del conflitto nel 2011, in quella zona ci sono state almeno 300.000 vittime, secondo le stime più basse. Numeri leggermente inferiori al totale delle vittime in Iraq, dove però il conflitto scoppiato nel 2014, ma è solo l'ultima puntata di una guerra iniziata nel 2003 dagli americani.

Se questi conflitti riescono per lo meno a muovere l'interesse mediatico, gli oltre 500 morti (circa 6.400 nel 2015) in Yemen fanno molto meno rumore, nonostante coinvolgano l'Arabia Saudita, nostro prezioso alleato in Medio Oriente. Si combatte anche in Donbass, Ucraina Orientale. Oltre 4.000 morti lo scorso anno, più di 500 quest'anno.

Conflitti anche in Pakistan, dove l'esercito regolare combatte contro milizie Talebane, e ancora in Egitto, dove la coda della rivolta del 2011 causa tutt'oggi centinaia di morti (2.500 e più lo scorso anno, oltre 600 quest'anno).

Faceva parte dei Paesi coinvolti nella Primavera Araba anche la Libia, dove poi è intervenuto ISIS a complicare un quadro già parecchio controverso. I morti, quest'anno, sono quasi un migliaio.

A proposito di guerre asimmetriche, combattute cioè da eserciti statali contro organizzazioni para-militari o private, in pochi si immaginerebbero che il numero delle vittime nella lotta contro le bande della droga in Messico sono quasi 10.000 dal 2015. Un numero enorme, se si pensa che è più del doppio di quelle causate dalla guerra civile nel Sud Sudan, una delle tante guerre dimenticate dell'Africa.

Per le guerre di oggi è più giusto dire "Guerre ignorate" .. Analizzando le due parole viene difficile capire come si possa dimenticare la propria contemporaneità, si scorda il passato non il presente, questo tutta al più lo si ignora. Ma ignorare una guerra significa anche ignorare chi la vive e la subisce.


Le Guerre "ignorate" dell'Africa

Marocco. Nel Paese del nord Africa è in corso un conflitto a bassa intensità di cui poco si parla e localizzato in una regione dove i problemi legati allo jihadismo hanno adombrato le rivendicazioni ancestrali e le lotte politiche. Nel sud del Marocco prosegue la tensione tra l'esercito di Rabat e il Fronte Polisario della Repubblica Democratica Araba Saharawi.

Una guerra iniziata con l'indipendenza del Marocco nel '56 e poi acuitasi nel 1975, quando gli spagnoli abbandonarono la regione meridionale del Paese e questa venne occupata dagli uomini di Hassan II. Da quel momento ha preso vita la guerriglia della popolazione locale che rivendica l'indipendenza dal Marocco. Il cessate il fuoco nella regione si è verificato nel '91 in cambio della promessa di un referendum sullo stato del Sahara Occidentale, che però non si è mai verificato.

Oggi la popolazione Saharawi conta 170mila persone che dopo 23 anni non hanno ancora visto riconoscersi quel lembo di deserto che rivendicano. Crisi economica, precarietà, disinteresse internazionale, fallimento delle politiche di riconciliazione, muri e campi minati che hanno provocato la morte di oltre 2.500 cittadini, sono tutti fattori che oggi stanno facendo rinascere il Fronte Polisario. I guerriglieri hanno imbracciato di nuovo le armi dichiarandosi pronti a combattere per ottenere ciò che la politica e le trattative non gli hanno mai dato.

Mali. La guerra in Mali è tornata di recente sui grandi media dopo che il 20 novembre, un commando jihadista ha assaltato l'Hotel Radisson Blue a Bamako e ha fatto una strage uccidendo più di 20 persone. È così ritornata sotto la luce dei riflettori una guerra dimenticata e in corso dal 2012.

Nel Paese africano infatti, tre anni fa, nel nord, scoppiò un conflitto dovuto alla sollevazione di una milizia tuareg, l'MNLA (Movimento Nazionale di Liberazione dell'Azawad), che mirava alla creazione di uno stato tuareg nell'area settentrionale del Mali. I guerriglieri laici dopo soli tre mesi sono stati però sconfitti dai gruppi jihadisti ed estromessi dalla regione.

È così che hanno preso sempre più piede le formazioni islamiste che hanno occupato l'intera porzione settentrionale del Mali. Nel 2013 una missione internazionale ha posto fine al controllo dell'area da parte dei gruppi legati alla jihad, ma non sono stati sradicati del tutto dal territorio e ancor oggi persiste la guerriglia delle formazioni affiliate ad al Qaeda e all'Isis. Nello specifico queste sono: Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), Al Mourabitoun, Mujao (Movimento per l'Onestà e la Jihad in Africa Occidentale), Ansar Dine e il Fronte di Liberazione della Macina.
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Nigeria. Un conflitto che coinvolge, seppur in forma più marginale, anche il Camerun, il Niger e il Ciad. Una guerra che riguarda la lotta all'estremismo jihadista di Boko Haram. Per quel che concerne la Nigeria, dove la setta è nata, ha fatto proselitismo e ha compiuto stragi, si può parlare di guerra dimenticata dal momento che le notizie che sopraggiungono dal Paese più popoloso d'Africa anche se costanti e le azioni del gruppo monitorate, sono però relegate nelle pagine interne dei giornali e nei titoli di coda dei telegiornali, anche se, solo negli ultimi due anni e solo in Nigeria i morti sono stati più di cinquemila.

Lo scenario che si è venuto a creare negli stati limitrofi dove Boko Haram (che in lingua Hausa significa l'educazione occidentale è proibita), ha esportato il terrore, è quello di una "guerra ignorata". Stragi nei campi profughi collocati nell'area del Lago Ciad e incursioni nei villaggi di confine, ed è così che la formazione legata al Califfato ha provocato negli ultimi due anni 500 morti in Camerun, 100 in Ciad e 100 in Niger.

I morti complessivi, della guerra del terrore avviata dal gruppo nigeriano nel 2009, sono oltre 25mila. Oggi a contrastare sul campo i guerriglieri islamisti c'è una coalizione internazionale costituita dalle truppe di Ciad, Camerun, Niger, Benin e Nigeria.
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Sudan. Il Sudan è il Paese dei conflitti dimenticati per antonomasia. Il dittatore Omar al Bashir alla guida dello stato africano dal 1989, condannato dal tribunale dell'Aja per crimini di guerra e contro l'umanità, per nascondere al mondo ciò che sta avvenendo nel suo stato ha reso impossibile l'accesso a giornalisti e ONG. In particolar modo l'ingresso è negato nelle tre aree dove sono in corso i conflitti tra le forze ribelli locali, supportate da una popolazione ormai allo stremo, e il governo centrale di Khartoum.

Le regioni dove in Sudan si combatte sono il Darfur, i Monti Nuba e il Blue Nile. La prima, il Darfur, è falcidiata da un conflitto iniziato nel 2003, ribattezzato anche "genocidio del Darfur". A scontrarsi i janjaweed, i cosidetti demoni a cavallo, miliziani di origine araba e appartenenti a popolazioni nomadi sostenuti dal governo centrale, contro i gruppi etnici locali formati da popolazioni non arabe e dedite all'agricoltura.

Il conflitto in Darfur è stato dettato da una disparità di trattamento tra le popolazioni arabe e africane e dall'accentramento delle risorse da parte del governo a scapito delle popolazioni che abitano le aree periferiche del Paese. In undici anni le stime parlano di oltre 300mila morti e 450mila sfollati.
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Le altre regioni invece interessate dalla guerra sono i Monti Nuba e il Blue Nile, e le origini del conflitto in corso in queste zone sono da far risalire alle guerre civili sudanesi che hanno visto combattere, in due conflitti, il nord e il sud del Paese. Le ostilità tra Juba (oggi Sud Sudan) e Khartoum (Sudan) sono cessate nel 2005. Nel 2011 il Sud Sudan è divenuto indipendente, ma le regioni dei Monti Nuba e del Blue Nile che hanno lottato a fianco dei separatisti del sud, dopo gli accordi, sono rimaste all'interno dei confini del Sudan. Ecco quindi che sono scoppiate di nuovo le ostilità tra l'esercito sudanese e i guerriglieri dell'SPLA-N (Soudan People Liberation Army North). Le due regioni vengono bombardate quotidianamente dall'aviazione governativa, la guerra ha coinvolto oltre duemilioni di persone e i profughi sono oltre 500mila.
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Sud Sudan. Nel 2011, dopo 20 anni di guerra e 2 milioni di morti, il Sud Sudan diviene indipendente. Lo stato più giovane dell'Africa celebra l'indipendenza e la fine delle ostilità contro il nord del Paese governato da Omar al Bashir. Ma la pace nel neonato stato dura poco.

Nel dicembre del 2013 scoppia infatti una nuova guerra civile che vede contrapporsi i soldati di etnia Dinka, legati al Presidente Salva Kiir, contro le forze fedeli all'ex vicepresidente Machar di etnia Nuer. Il 15 agosto 2015 sono stati firmati gli accordi di pace, ma nonostante ciò le violenze proseguono in diverse aree del Sud Sudan e il governo di unità nazionale che era stato concordato nei patti non è stato ancora costituito.

Le stime dicono che in Sud Sudan in due anni di scontri decine di migliaia di persone sono state uccise, due milioni di civili sono stati costretti ad abbandonare le proprie case, 4,6 milioni di persone stanno affrontando una crisi alimentare e inoltre quello che è emerso da un rapporto dell'Unione Africana è che sia le milizie ribelli che l'esercito governativo hanno commesso crimini atroci, esecuzioni sommarie, stupri, mutilazioni torture e persino atti di cannibalismo.
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Repubblica Centrafricana. Il piccolo Stato d'Africa è salito alla ribalta delle cronache nel 2015 per essere stato il primo Paese in guerra, nella storia, ad aver accolto una visita pontificia. A novembre Papa Francesco si è recato a Bangui, ha aperto la Porta Santa e ha invitato i fedeli musulmani e cristiani e le autorità religiose a lavorare insieme per porre fine alle violenze e ricostruire la convivenza e la pace.

In Centrafrica dal dicembre del 2012 è in corso un conflitto civile. La guerra è iniziata dopo che i ribelli a maggioranza islamica, appoggiati da mercenari del Ciad e del Sudan, hanno dato vita alla coalizione della Seleka. La ribellione in soli tre mesi ha preso il controllo della capitale Bangui ma l'avanzata degli insorti è coincisa con l'inizio delle persecuzioni nei confronti della popolazione cristiana e animista che si è quindi unita nelle formazioni Anti Balaka.

Lo scontro, anche se gli analisti sostengono sia dovuto per il possesso delle risorse del sottosuolo, è degenerato quindi in una lotta confessionale. Nemmeno le missioni internazionali, la visita del Papa e l'elezione di un nuovo presidente, ha portato a una cessazione delle ostilità. Il Centrafrica si trova oggi diviso in due. Nell'ovest comandano i gruppi legati agli Anti-Balaka, e nell'est i musulmani della Seleka. La guerra ha provocato oltre un milione di profughi e 5mila morti.
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Somalia. Il paese del Corno d'Africa dagli anni '90 ad oggi è in balia di una guerra infinita. La crisi somala ha avuto origine con la caduta di Siad Barre e l'ascesa dei War Lords (Signori della Guerra). Poi, terminata la loro epoca, sul proscenio del conflitto somalo, sono apparse le Coorti Islamiche e poi i terroristi di Al Shabaab.

Oggi, sebbene i ribelli jihadisti siano stati cacciati dalle principali città del Paese, il conflitto comunque perdura. Gli islamisti infatti controllano ancora porzioni della Somalia, soprattutto nell'entroterra, e la loro guerriglia che mira ad uccidere rappresentanti del governo, dell'Unione Africana, soldati dell'esercito somalo e giornalisti, continua a rivelarsi vincente. Sul terreno quindi quotidianamente si verificano scontri tra le formazioni qaediste e le truppe del contingente Amisom dell'Unione Africana e intanto la popolazione è ridotta allo stremo.

Da quando è scoppiato il conflitto si parla di oltre 500mila morti, un milione di rifugiati interni e un milione sono i cittadini che hanno abbandonato il Paese. Il nuovo governo, formatosi nel 2012, che doveva transitare la Somalia verso le libere elezioni del 2016, si è rivelato fallimentare. Le elezioni infatti non saranno a suffragio universale e i leader politici sono accusati di malversazione, corruzione e cattiva gestione degli aiuti umanitari.
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Repubblica Democratica del Congo. L'ex Zaire è una terra di enormi ricchezze e pochissima stabilità. L'ultimo grande conflitto di cui si è sentito parlare è stato quello del 2012-2013 che ha visto confrontarsi i ribelli Tutsi dell'M23 in Nord Kivu contro le truppe delle FARDC. Ma sebbene quello scontro sia cessato, oggi nel territorio della Repubblica Democratica del Congo ci sono decine di gruppi guerriglieri.

Una catalogazione effettuata dal Congo Research Group parla di 69 formazioni in armi, pronte a combattere per un pugno di terra. Le ragioni principali che stanno alla base di quest'universo ribelle sono da ricercarsi nella ricchezza del sottosuolo e quindi nel controllo di diamanti, oro e coltan. Ci sono anche formazioni con un'impostazione politica più marcate come le FDLR. Quest'ultimi sono legati alle milizie hutu che nel '94 diedero inizio al genocidio del Rwanda e oggi proseguono nella loro attività di destabilizzazione e guerriglia sfruttando le foreste congolesi come rifugio in cui pianificare le azioni.

Nell'ultimo anno inoltre si sono verificati incidenti anche Kinshasa dovuti alla volontà del Presidente Kabila di candidarsi per il terzo mandato consecutivo, sebbene la costituzione lo impedisca.
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Burundi. Un'escalation di violenza, un clima da guerra civile e prodromi di un possibile genocidio stanno caratterizzando il piccolo stato della regione dei Grandi Laghi. La storia recente del Burundi è puntellata da guerre etniche e massacri, ma è da aprile 2015 che la situazione è nuovamente precipitata, quando il presidente Nkurunziza ha annunciato di volersi candidare per un terzo mandato violando così la Costituzione.

L'opposizione formata da Hutu e da Tutsi, subito si è sollevata, ma le proteste sono state represse nel sangue. Il 21 luglio 2015 si sono svolte le elezioni e, com'era prevedibile, Nkurunziza ha vinto. L'opposizione si è armata e ha iniziato a diffondersi così il terrore nel Paese. La dimensione etnica all'inizio era sembrata secondaria, ora invece pare che la propaganda di Nkurunziza stia spostando il baricentro verso uno scontro etnico e si teme quindi che un nuovo orrore come quello avvenuto nel '94 in Rwanda possa perpetrarsi di nuovo.
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Etiopia. In Etiopia una rivolta interna di alcuni gruppi etnici e religiosi, tra cui gli Oromo, che chiedevano riforme nel Paese, ha causato la dura reazione del governo, che ha risposto con una repressione violenta, causando la morte di centinaia di civili e avvicinando il Paese ad una vera e propria guerra civile.

Mozambico. Difficile leggere notizie anche del Mozambico, in cui la Resistenza Nazionale (Renamo) ha ripreso le armi già da qualche anno contro il governo centrale. Migliaia di profughi mozambicani hanno così provato ad entrare in Malawi, per trovare rifugio a quella che sta diventando, a tutti gli effetti, una guerra civile.

Angola. C'è il petrolio al centro della vicenda del Cabinda, enclave del popolo bantu in Angola. Prima dell'avvento degli Europei (giunti in Africa Occidentale alla fine del XV secolo), l'attuale provincia era parte del regno bantu di N'Goyo. A metà del XVI secolo, il regno divenne protettorato del Portogallo.

Nel 1975, l'Angola ottenne l'indipendenza, e Cabinda fu inclusa come provincia della nuova nazione. Da allora iniziò un lungo periodo di instabilità politica, tuttora non risolta, con continui scontri fra il FLEC (Front for the Liberation of the Enclave of Cabinda) e l'esercito angolano. Decine di morti anche quest'anno, mentre l'Angola cerca di placare le mire indipendentiste della regione.

Altri conflitti "ignorati"

Messico. Da oltre dieci anni nel paese centroamericano va in scena una guerra tra lo Stato e i cartelli della droga. Fosse comuni, studenti scomparsi, giornalisti uccisi più che in qualunque altro conflitto, questo è quanto sta avvenendo nella repubblica dell'America Latina. Anche le cifre sono discordanti sulle proporzioni della tragedia. Si calcola che il conflitto per la droga ha provocato oltre 100mila morti e 26mila persone sono scomparse e mai più state rinvenute.

Colombia. Tra le guerre dimenticate non può mancare quella tra le Farc e le truppe governative colombiane. Sulle Ande, tra le giungle della Colombia, sono ancora presenti le forze della guerriglia più longeva della storia. Però una svolta radicale per il futuro del Paese latino-americano sembra essere stata raggiunta nel 2015, quando una tregua bilaterale è stata firmata dalle due parti in causa e gli accordi di pace che stanno andando in scena all'Avana sembrano raggiungere traguardi importanti.

Nagorno Karabakh. È una guerra dimenticata dagli uomini e dalla storia, quella tra Armenia e Azerbaijan combattuta per la regione contesa del Nagorno Karabah. Un conflitto quello caucasico che affonda le sue radici nell'epoca sovietica, quando l'imperialismo staliniano ridisegnò i confini del territorio dell'URSS senza considerare le divisioni etniche e religiose presenti. È così infatti che nel dicembre del '91, gli armeni del Nagorno Karabakh votarono per l'indipendenza dall'Azerbaijan, ovviamente ignorata dal governo centrale.

Nel 2014 si è registrato un acuirsi degli scontri e sul fronte della guerra armeno azera si continua ancora adesso a combattere tra camminamenti e trincee, con frequenti scambi di colpi di mortaio.

Kashmir, la regione di frontiera tra Pakistan e India. Le ragioni affondano nella storia del periodo coloniale. Immediatamente dopo l'indipendenza infatti incominciarono a sorgere problemi tra le due nazioni. Gli accordi prevedevano la nascita di due stati, uno a maggioranza islamica e l'altro induista, ma la partizione su base religiosa, che diede vita al Pakistan e all'India, non avvenne per quel che riguardò la piccola regione himalayana.

Il sovrano locale, il Maharaja Hari Singh, decise infatti di annettere il Kashmir all'India. Immediata scoppiò quindi nel '49 la prima guerra tra due Paesi che si concluse con la divisione della regione in due parti una appartenente all'India e l'altra al Pakistan, ma che il Pakistan non ha mai accettato del tutto. Solo nel 2016 il conflitto ha causato almeno duecento vittime. Il quadro è particolarmente complesso dato che alcune truppe rivoltose sembrano essere appoggiate dal Pakistan.

Birmania. La guerriglia che va in scena in Birmania è connaturata nella storia recente dello stato orientale, noto anche come Myanmar perché così era stato ribattezzato dalla giunta militare nell'89. Per comprendere le ragioni del conflitto di oggi bisogna risalire al 1949 quando il Presidente Aung San, dopo l'indipendenza, firmò il "Trattato di Planglong",che consentiva ad ogni etnia di scegliere il proprio avvenire politico e sociale.

Ma con il golpe del generale Ne Win e la presa del potere da parte della giunta, l'accordo non è mai stato rispettato e la minoranza etnica dei Karen è stata perseguitata. È iniziato così quindi il conflitto che a fasi alterne perdura ancor oggi e che vede contrapporsi i movimenti indipendentisti Karen contro il governo centrale. Le vittime, solo quest'anno, potrebbero essere più di 1.000. Si stimano almeno 500.000 rifugiati interni.


A che cosa serve la giornata della pace che si ricorda ogni 21 settembre, probabilmente non a risolvere nemmeno uno di questi conflitti, ma piuttosto a prendere coscienza prima di tutto di un problema di informazione, ma anche dello stallo diplomatico in molte aree del mondo e del totale disinteresse della comunità interazionale per zone e nazioni lasciate sole, almeno finché non saranno toccati gli interessi giusti


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Articolo di
Maris Davis

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