31 maggio 2015

In Italia duemila spose bambine ogni anno.

Le stime del Centro Documentazione per l'Infanzia. In Italia duemila "spose bambine" ogni anno, e molte di loro sono costrette a rimpatriare. Nozze imposte soprattutto tra indiani e pakistani.

Adolescenti con il "Cervello a metà". "Viviamo con il cervello a metà. Una parte nel Paese della nostra famiglia, una parte con i nostri amici di qui che ci dicono di restare qui e di inserirci in questa società". La vita spezzata delle adolescenti straniere inizia a tredici, quattordici anni. È a quell'età che, secondo i sociologi che hanno intervistato queste ragazze, si vedono i primi segni di conflitto.

Fino all'anno prima potevano portare i loro compagni in casa, poi diventa proibito. Non vanno in gita con la classe e iniziano le liti sui vestiti, il trucco, le magliette troppo corte. Situazioni comuni un po' in tutta Italia, ma soprattutto nelle grandi città del nord e a Roma. Le ragazze con il "cervello a metà" crescono su due binari, senza sapere quale seguire.

"Per noi è impossibile progettare il futuro". Si trovano in mezzo a due forze e non sanno come metterle in equilibrio. Poi, ogni tanto, qualcuna sparisce dalle scuole superiori, oppure non rientra dalle vacanze. Le famiglie le hanno riportate nel loro Paese per farle sposare.

In un solo anno (2013), nella città inglese di Bradford, sono "scomparse" 200 ragazzine tra i 13 e i 16 anni, figlie di immigrati. In Italia non esistono statistiche dettagliate. L’unica stima è del Centro nazionale di documentazione per l’infanzia secondo cui le "spose bambine" nel nostro Paese sarebbero duemila all'anno circa.

Matrimoni sommersi. In Italia i minorenni non possono sposarsi, esiste però una deroga per "gravi motivi", dai 16 anni in poi il tribunale per i minori può autorizzare le nozze. Il Centro di documentazione per l’infanzia registra da anni questi casi. Nel 1999 erano 1.173, poi sono via via diminuiti, fino ai 209 del 2011 e i 156 del 2012 (ultimo dato disponibile). La Campania è la regione in cui ne avvengono di più, 77. Per la maggior parte si tratta di matrimoni tra stranieri, con in testa le comunità di immigrati da Pakistan, India e Marocco.

Questi numeri descrivono però solo l’aspetto legale, che secondo gli esperti è minimo rispetto a tutti i legami imposti all'interno delle famiglie, a volte suggellati con un rito in qualche moschea, più spesso con unioni celebrate nei Paesi d’origine. "Le seconde generazioni delle ragazze sono e saranno una vera emergenza. Se non si interviene con politiche più incisive, i contrasti tra l’idea di famiglia imposta dai genitori e il modello delle adolescenti diventerà inconciliabile".

Conflitti latenti. Altri dati definiscono questa situazione di rischio potenziale. Le ragazze immigrate di seconda generazione nel nostro Paese sono circa 175 mila. "Il matrimonio combinato riguarda però solo alcune comunità, quella indiana e quella pakistana più delle altre, in misura minore quella marocchina e quell'egiziana".

Le nozze imposte sono il male estremo. Il pericolo dei prossimi dieci anni rischia di essere la "conflittualità latente", incarnata da ragazze che studiano e si integrano, ma che vivono in famiglie attaccate alle tradizioni. "Molti genitori non hanno un grado di istruzione elevato e quindi di fronte a situazioni in cui vedono un pericolo non sanno come reagire. Si chiudono, diventano severi e impongono le regole con l’aggressività e si chiudono impedendo qualsiasi dialogo e non lasciano più spazi di libertà alle loro figlie".

Alcuni ragazzi e ragazze scappano, o si allontanano da casa per qualche tempo, proprio per sfuggire alle "leggi" dei genitori. Le famiglie cercano anche sinceramente il bene dei loro figli, ma purtroppo, rispetto alla loro educazione e alle loro tradizioni, si trovano in un contesto nuovo, e un po' per paura e un po' per ignoranza, si chiudono in se stesse e non accettano nessun tipo di mediazione.

Ricerca di autonomia. Un caso simbolo, salvata una ragazza a Novara. Diciassette anni, una figlia di 4 mesi, moglie maltrattata di un "matrimonio combinato". Ora si trova in una comunità di Roma. A denunciare la situazione è stata una vicina di casa. Lei non sapeva neppure a chi rivolgersi. La ribellione è complicata, e allora, per trovare un equilibrio, le promesse mogli adolescenti cercano uno "spazio di negoziato".

Un'altra ragazzina pakistana di Roma ha confessato "Ho accettato la richiesta di mio padre, sposerò un uomo del mio Paese. Ma ho chiesto di poter scegliere tra più di un possibile marito, di vederne almeno tre o quattro". Ragazze che non possono, o non vogliono, scardinare il sistema di regole della famiglia. Ma cercano di ricavare spazi minimali si sopravvivenza.

Altro racconto, di un’adolescente egiziana, studentessa nel milanese. "Hanno scelto l’uomo per me, non mi oppongo. Ma ho chiesto due cose. Prima del matrimonio volevo vederlo. E poi ho ottenuto una garanzia, una specie di contratto non scritto, dopo il matrimonio potrò continuare la scuola e poi andare all'università, per laurearmi"

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22 maggio 2015

L'ipocrisia di chi vorrebbe regolamentare le "donne schiave"

Il dibattito e le polemiche che si sono scatenate in seguito all'annuncio della creazione di strade a "luci rosse" nel quartiere EUR di Roma, o le più recenti affermazioni di "certi" politici (Matteo Salvini della Lega Nord) che vorrebbero regolamentare la "prostituzione", si sono spesso articolati attorno a un grave fraintendimento e a molta ipocrisia. Per questo va innanzitutto chiarita una cosa, il fenomeno della prostituzione, che in Italia non è reato, si confonde oggi sempre di più con quello della tratta di esseri umani e riduzione in schiavitù, che invece sono reati gravissimi.

L’80 per cento delle donne che in Italia vengono definite "prostitute" sono in realtà donne immigrate costrette a vendere il proprio corpo da trafficanti e sfruttatori, che le immettono come merce sul mercato del sesso a pagamento. Un mercato del sesso che conta dai nove ai dieci milioni di clienti al mese, questi sì, quasi tutti italiani. E allora quando ciclicamente si riaccende il dibattito sulla creazione di quartieri a "luci rosse" o sulla riapertura delle "case chiuse" bisognerebbe almeno avere l’onestà di guardare in faccia il fenomeno della prostituzione nella sua complessità e anche nella sua crudeltà.

E bisognerebbe chiamare le cose con il loro nome, non prostitute, ma prostituite. Non donne che scelgono di vendere il proprio corpo, ma vittime di tratta e sfruttamento. Non persone libere, ma schiave. Quello di cui stiamo parlando, dunque, non può essere semplicemente liquidato come un fenomeno di prostituzione, ma come una delle peggiori schiavitù del XXI secolo.

La tratta di esseri umani riguarda circa 21 milioni di persone nel mondo. Il 70% sono donne e bambine, sfruttate soprattutto per la prostituzione. Ma è in crescita anche il numero di uomini e minorenni costretti al lavoro forzato. Ogni anno, circa 2,5 milioni di persone sono vittime di traffico di esseri umani e riduzione in schiavitù. Con picchi particolarmente allarmanti in occasione di grandi eventi come i Mondiali di calcio in Brasile, il Super Bowl negli Stati Uniti e, si teme, anche per l'ormai avviato Expo di Milano. Le forze dell’ordine parlano di un possibile "import" di circa 15mila nuove "prostitute" nei prossimi mesi, in gran parte organizzato da mafie internazionali.

Che fare, dunque, per contrastare questi traffici? La creazione di "case chiuse" o di zone "protette" non è la strada migliore per sgominare le bande criminali e proteggere le vittime. Così come si sono rivelati inefficaci, anche perché spesso estemporanei, i provvedimenti volti a multare i clienti. Si tratta in genere di ordinanze comunali spesso emesse in chiave elettorale allo scopo di "ripulire" le città e garantire decoro e sicurezza (o per non intralciare la viabilità), facendo sparire, almeno per qualche tempo, anche quella "spazzatura umana" che sono le prostitute. Le quali, essendo quasi sempre straniere e senza documenti, ed avendo paura per la propria incolumità e per quella delle loro famiglie di denunciare, rischiano di finire nei CIE per poi essere espulse. Donne ridotte da vittime a criminali.

In alcuni Paesi europei, come Svezia, Norvegia e Islanda e, più recentemente, Francia, pesanti sanzioni contro i clienti avrebbero scoraggiato il fenomeno della prostituzione. Ma accanto alla penalizzazione dell’acquisto di sesso a pagamento, la Svezia ha portato avanti, già dal 1999, un percorso culturale, che sta producendo un importante cambiamento di mentalità. Il principio di base è che la compravendita del sesso è una forma di violenza, svilisce l’essere umano e mina la parità di genere - Lettera al cliente di una prostituta vittima di tratta -

Quella di sanzionare i clienti che "acquistano sesso" è una soluzione auspicata, ma va attuata a livello nazionale con un'apposita legge e soprattutto è necessario che sia affiancata da un percorso culturale da iniziare fin dalle scuole dell'obbligo. Per l'Italia un'altra soluzione è quella di modificare subito la legge che regolamenta l'immigrazione (Bossi-Fini) e soprattutto modificare l'articolo 18 (protezione sociale) che non da abbastanza garanzie per le donne schiave che vorrebbero denunciare i loro protettori. Non è più possibile mettere sullo stesso piano sia le "vittime" che i "carnefici".

Sempre in Svezia nel 1996, il 45% delle donne e il 20% degli uomini erano a favore della criminalizzazione dei clienti, nel 2008 la percentuale delle donne è salita al 79% e quella degli uomini al 60%. Secondo la polizia svedese il provvedimento avrebbe contribuito a ridurre il numero di persone che si prostituiscono e avrebbe esercitato un notevole effetto deterrente anche sulla tratta a fini di sfruttamento sessuale. Nel febbraio dello scorso anno il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione che si esprime a favore del "modello nordico", ma che non è vincolante per i Paesi membri.

Per molti paesi del nord europa, infatti, "l’industria della prostituzione" rappresenta una voce importante del PIL. In Olanda, ad esempio, corrisponde a circa il 5%, mentre in Danimarca l’industria della pornografia è la terza per importanza del Paese. Ma proprio in Paesi come l’Olanda, dove la prostituzione è legalizzata e le prostitute sono considerate sex worker con diritti e doveri come qualsiasi altro lavoratore, dal pagare le tasse (uno dei cavalli di battaglia anche dei "pro-legalizzazione" di casa nostra) all'avere l’assistenza sanitaria, non è stata per nulla debellata la tratta.

Dove la prostituzione è legale, molte delle donne che si prostituiscono sono comunque costrette a farlo, non sono libere di smettere quando vogliono, devono, come nel caso delle nigeriane, restituire il "debito" ai loro aguzzini, subiscono spesso violenze dai loro sfruttatori e hanno ancora più difficoltà a ribellarsi a chi le costringe a vendersi e a chiedere aiuto, proprio perché sono ufficialmente "legali".

Le linee di intervento, promosse anche a livello internazionale, per contrastare il fenomeno della tratta e della riduzione in schiavitù a fini di prostituzione, dovrebbero articolarsi attorno alle cosiddette "tre P"
  • Prevention,
  • Protection,
  • Prosecution.

Prevenzione del fenomeno, innanzitutto nei Paesi d’origine, ma anche in quelli di destinazione, creando maggiore conoscenza e sensibilità sul fenomeno e cercando di ridurre la "domanda". Per fare un discorso serio di sensibilizzazione e prevenzione non si può però circoscrivere la discussione al tema della prostituzione, ma va necessariamente allargato alle questioni relative alla relazione tra i generi, l’affettività, l’educazione a una sessualità responsabile già a partire dalla scuola, la crisi dei ruoli, il rapporto tra denaro e potere. Nonché alla conoscenza del fenomeno della tratta di essere umani e della prostituzione coatta.

Protezione delle vittime, invece, significa per prima cosa riconoscere che sono vittime e non mere immigrate clandestine, o semplici lavoratrici del sesso o addirittura criminali.

Perseguire i trafficanti. Infine, si tratta di contrastare il traffico e perseguire in giustizia i criminali. Purtroppo, anche su questo punto c’è ancora molto cammino da fare se è vero che, non solo in Italia ma a livello globale, sono pochissimi i trafficanti e gli sfruttatori che sono finiti in prigione per questi gravissimi reati. La maggior parte continua ad operare nella quasi assoluta impunità.

Secondo le Nazioni Unite, il 40% dei Paesi ha riportato pochissime condanne per questo reato, a volte nessuna, e negli ultimi dieci anni nulla è cambiato relativamente alle misure prese per contrastare questo fenomeno criminale. L'Italia non fa eccezione. Nonostante indagini e interventi delle forze dell’ordine, sono pochissimi i processi per traffico di esseri umani e riduzione in schiavitù. Ma soprattutto sono sempre di meno gli sforzi per affrontare il fenomeno nella sua complessità e drammaticità. Anche perché non lo si vuole guardare o affrontare per quello che è. E allora si reprime la prostituzione, ma non il traffico di esseri umani, si tolgono le ragazze delle strade o si multano loro e i clienti, ma non si toccano trafficanti e sfruttatori.

Anche il primo rapporto Greta 2014, il meccanismo di monitoraggio del Consiglio d’Europa, ha stigmatizzato "l’insufficiente attenzione" alla tratta di esseri umani in Italia. Tra il 2011 e il 2013 sono state ufficialmente assistite 4.530 persone, ma "i dati forniti non rivelano la vera ampiezza del fenomeno" e trascurano ad esempio tutti gli altri aspetti della tratta, come il caporalato agricolo, le badanti, le collaboratrici domestiche e i minori avviati all'accattonaggio. Soprattutto, il rapporto Greta, ma anche molte organizzazioni della società civile, chiede di "adottare con urgenza un piano d’azione nazionale che definisca priorità, obiettivi, attività concrete e responsabili per la loro attuazione" - Download Rapporto Greta, inglese -

Il Piano anti-tratta, scaduto a fine 2014, non è ancora stato riapprovato e rifinanziato. A tutto vantaggio di chi continua a sfruttare uomini, donne e minorenni per il fiorente mercato della prostituzione (e non solo). In questo contesto che senso ha, dunque, la creazione di zone a luci rosse "protette"? Protette per chi, poi? Per criminali e clienti, forse. Non certo per le vittime di tratta, che sono le vere nuove "schiave" del XXI secolo.



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19 maggio 2015

Violentate perché possano partorire i futuri soldati di Boko Haram

Ragazza rapita da Boko Haram
e appena liberata
Violentate per essere messe incinta, e generare futuri guerrieri. Le prigioniere di Boko Haram, ora libere, raccontano le violenze subite.

"I miliziani di Boko Haram hanno una certa convinzione spirituale per la quale sostengono che i loro figli cresceranno ereditando la loro stessa ideologia, anche qualora non dovessero vivere al loro fianco". Ecco perché, delle circa seicento ragazze liberate dall'esercito nigeriano nella foresta di Sambisa all'inizio di questo mese, almeno 214 risultano in stato di gravidanza.
- leggi -

Molte di esse sono rimaste prigioniere per molti mesi e sistematicamente venivano violentate.

"Dopo aver messo incinta le loro prigioniere, le trattengono per almeno quattro mesi dall'inizio della gravidanza per rendere difficile, se non impossibile, l'aborto, poi, molto spesso, abbandonano le donne che in molti casi ritornano a casa".

Tra fine e aprile e inizio maggio in due diverse operazioni all'interno della foresta di Sambisa, l'esercito nigeriano ha liberato più di 680 prigionieri, molti erano bambini e bambine, altri anziani, molte ragazze e donne.
- leggi 29 aprile e 2 maggio -

La cosa più spaventosa riguardo tutta la vicenda è proprio la convinzione da parte dei miliziani di aver in qualche modo dato vita a un piccolo esercito che porterà avanti la loro battaglia anche a distanza di anni, è l'esercito dei loro figli. Le donne sono state messe incinta di proposito. Alcune raccontano di esser state trattate come delle "macchine del sesso".

"Sono stata rapita sei mesi fa a Delsak, quando il nostro villaggio è stato conquistato da Boko Haram" ha raccontato Asabe Aliyu, di 23 anni, "prima ci siamo fermati in una foresta vicino al confine con il Camerun, dove mi hanno trasformata in una macchina del sesso. Facevano a turni per dormire con me. Ora sono incinta, e non riesco neanche a identificarne il padre".

Alla fine del 2014, nel nordest del Paese, ovvero l'area in cui il gruppo estremista Boko Haram è maggiormente attivo, il Fondo delle Nazioni Unite per le popolazioni in Stato di Crisi (UNFPA) aveva aiutato 16.350 donne a partorire in maniera sicura all'interno delle sue strutture.

Ragazze e donne appena liberate dalla prigionia di Boko Haram
Durante i mesi di prigionia, ad alcune donne veniva data la scelta, sposare un membro di Boko Haram o diventare schiave. Secondo le testimonianze delle ragazze liberate, la maggior parte dei miliziani è circondato da più donne, tra tre e cinque ognuno, cosiddette "mogli" o "schiave sessuali". Le schiave dovevano anche cucinare e badare al campo base, dove erano detenute come prigioniere, mentre i miliziani spesso le insultavano. Se si rifiutavano di fare sesso con loro, venivano picchiate.

Altre donne liberate raccontano di esser state legate e maltrattate, costrette a mangiare mais secco. Alcune hanno riferito di aver finto di essere pazze pur di non essere avvicinate.

Boko Haram considera infedeli tutti coloro che non condividono la loro ideologia. Per questo motivo, il marito della ventisettenne Lami Musa era stato ucciso dal gruppo estremista quando lei era incinta di quattro mesi. Le avevano detto che sarebbe stata costretta a sposare uno dei loro comandanti la settimana dopo aver partorito, ma per fortuna è stata liberata dall'esercito pochi giorni dopo aver partorito.

Stanca e ancora gonfia dopo il parto, con in braccio una bambina di tre giorni, ha raccontato come a volte passava giorni interi senza cibo o acqua. Trattenendo le lacrime a stento, ha raccontato Lami "Ancora non conosco le condizioni di mia figlia, né io né lei ci siamo ancora potute lavare da quando è nata".

La maggior parte delle ragazze liberate soffre di gravi traumi psicosociali e l'Unfpa è al lavoro per aiutarle a ripristinare la loro dignità personale. "In zone di conflitto o aree colpite da disastri naturali, la maggior parte delle persone pensa a procurare acqua, medicinali, alloggi e cibo, che sono tutte cose molto importanti, ma le donne e le ragazze rapite non hanno avuto nulla di tutto questo, dai loro carcerieri sono state trattate come bestie".

Maryamu Adamu è convinta di esser stata all'inferno per i nove mesi in cui era prigioniera nella foresta di Sambisa. Non sa se suo marito e i loro due figli siano ancora vivi. "So che fino a poco fa ero morta. Ma sono qui adesso, e mi sento finalmente viva. Ringrazio Dio che lo sono. Ringrazio Dio".
(Testimonianze e fonti
The Post International)

(Slideshow "Ragazze liberate")





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18 maggio 2015

Italia, invisibile e indisturbata la Mafia made in Nigeria

Mafia nigeriana e i mercanti di "donne". Cupole fondate su rituali macabri, sacrifici di sangue, stupri e rapimenti, ricatti di una crudeltà inaudita, sul traffico di stupefacenti e sulla prostituzione, al centro di faide brutali, sanguinose e interminabili. Completamente ignorate, anche da chi le dovrebbe reprimere.

Un fenomeno da anni in pieno sviluppo, quello della mafia nigeriana, tanto da poter essere ormai considerato parte integrante del sistema malavitoso italiano, ben radicato nel territorio e operante a pieno regime, ma ciononostante pressoché sconosciuto.

Dalla lettura dei rapporti della magistratura ne emerge un profilo a dir poco agghiacciante, in cui a far da contorno agli spaventosi interessi economici mossi da questi gruppi mafiosi rimangono descrizioni sconcertanti della violenza che usano sistematicamente nella gestione dei propri affari.

Sono parole crude, che gettano su quest'organizzazione un'ombra inquietante. Descrivono senza filtri le sue modalità, parlano di schiavitù e di pratiche barbare. La loro analisi risulta di fondamentale importanza, non per un morboso gusto dell’orrido, ma al fine di carpirne le dinamiche. La mafia nigeriana non ha pentiti e basa il suo successo su un terrorismo psicologico di matrice mistico-religiosa, che le consente di proteggersi dietro un'omertà di tutt'altra natura rispetto a quella a cui siamo abituati dalle mafie nostrane.

Forse è per l’omertà, o forse perché non si è prestata sufficiente attenzione a certe manifestazioni, pur macroscopiche, di questo sistema malavitoso, che le istituzioni italiane sono arrivate solo negli ultimi anni a considerare la questione in tutta la sua problematicità. Non è in effetti una novità che una buona parte degli introiti delle mafie derivino dallo spaccio di droga, dalla prostituzione e dal traffico di esseri umani, ma tuttavia, specialmente per quanto riguarda gli ultimi due ambiti (prostituzione e traffico di esseri umani), raramente si è arrivati a provvedimenti concreti.

L’azione delle forze dell'ordine e della legge si è perlopiù limitata a ripulire la superficie. L'intervento sul singolo spacciatore, sulla singola prostituta o sulla piccola cellula locale, sul migrante che riesce miracolosamente a sbarcare a Lampedusa e che sparisce per mesi nei centri d'identificazione.

Il motivo è banale, eliminare alla radice il problema significa fare i conti con l'immenso potere transnazionale delle mafie. E quella nigeriana, agendo silenziosamente ma inesorabilmente dagli anni ottanta in poi, ha guadagnato fra di esse una posizione di spicco.

Indagini e informative più o meno segrete hanno potuto fare una mappa di quelli che sono i gruppi mafiosi nigeriani e i loro territori di influenza in Italia. Esistono varie cellule da Nord a Sud. Quelli di Roma controllano Lazio e centro Italia, a Napoli e nel casertano i gruppi nigeriani hanno stretto rapporti con la camorra, a Palermo con la mafia, e poi Toscana, Lombardia e Piemonte, e per finire il nord-est dell'Italia dove la mafia nigeriana è particolarmente attiva in Veneto.

Hanna
Omertà scalfita raramente e solo dalle dichiarazioni di alcune ragazze "trafficate" ridotte in schiavitù, ovvero dall'ultimo anello della catena, ma anche queste ragazze hanno paura. Non mancano però le denunce coraggiose come quella di Hanna che abbiamo raccontato anche nella nostra pubblicazione "Storie Vere". La denuncia di Hanna permise di istruire un'inchiesta che portò all'arresto e all'incriminazione di 70 persone in tutta Italia.

I membri della cupola mafiosa nigeriana praticano affiliazioni occulte e riti raccapriccianti, un esempio su tutti, procurarsi tagli sulle braccia e berne il sangue e, dopo il pagamento di una somma cospicua, gli aspiranti affiliati divengono di fatto schiavi a vita dell'organizzazione. Viene richiesta cieca obbedienza, omertà assoluta e il versamento periodico di denaro per finanziare i gruppi locali. Il reclutamento di nuovi adepti viene effettuato con metodi coercitivi e violenti, mentre i regolamenti di conti con i rivali sono saldati a colpi di machete o d'arma da fuoco.

Le ricerche della magistratura hanno consentito soprattutto di svelare l’orrore nascosto dietro ciascuna delle centinaia di donne costrette in schiavitù dai boss e obbligate a prostituirsi per saldare il debito contratto con la mafia per il viaggio dalla Nigeria all'Italia. Costrette a vendersi per anni, senza alcuna possibilità di fuggire, fino a raggiungere la quota di sessanta, settanta, ottanta e più mila euro da versare ai loro sfruttatori, "attraverso intimidazioni e minacce, sia di punizioni fisiche sia del ricorso a pratiche magiche woodoo"

Rientrano infatti fra le prove da sostenere prima del viaggio una serie di rituali, fra cui mangiare un cuore di gallina, o compiere giuramento davanti a un tempio sacro. A queste ragazze viene fatto credere che, in caso di mancato pagamento di quanto pattuito con le "mamam" (le sfruttatrici), gli spiriti woodoo le uccideranno.

Le giovani donne vengono sottoposte a un vero e proprio lavaggio del cervello, mediante cerimoniali svolti da santoni locali che sfruttano credenze religiose e ritualità con cui sono cresciute fin da bambine nelle loro comunità di origine. Il woodoo, vera e propria religione, è in grado, "facendo leva sulle credenze ancestrali africane", di esercitare un grado di coercizione pressoché assoluto nelle vittime.

La disobbedienza ai precetti del woodoo comporta un castigo atroce ad opera degli spiriti e delle divinità. Per tal via, il sapiente uso delle pratiche del woodoo consente una tenuta senza pari alla malavita nigeriana, evitando il fenomeno del pentitismo. E al di là della minaccia della vendetta divina, qualsiasi tentativo di fuga o di ribellione viene punito o con la violenza bruta o, se la donna riesce a scappare, con l’omicidio in patria dei genitori o dei parenti più prossimi.

La tratta di queste schiave del terzo millennio è lunga e terribile. Scelte giovanissime dalle "mamam" nei loro villaggi e sottratte alle loro famiglie, a volte dietro compenso, vengono trasferite dalla Nigeria al Niger, al Mali, dove molte di loro subiscono ripetute violenze sessuali. Successivamente portate in Italia e fatte prostituire, spesso in piena gravidanza, e poi fatte abortire.

Si tratta ormai di un fenomeno epidemico. Circa il 60% delle prostitute in Italia proviene dall'Africa e si suddividono quasi equamente tra settentrione, centro e sud Italia. Ma la prostituzione non è che una parte di un fenomeno ben più grande, ovvero quello del traffico d’esseri umani, prima fonte di profitto della criminalità nigeriana, che va a rimpolpare le nostre campagne di nuovi servi della gleba, vedi per esempio Rosarno e gli schiavi delle arance o i vari "schiavi" nelle piantagioni di pomodori e di altri prodotti stagionali soprattutto nel Sud Italia.

Il capitale così ottenuto viene poi dirottato nel più lucroso traffico di stupefacenti. È probabilmente in quest’ambito, nella tratta umana, che si rivela più chiaramente il volto reale della mafia nera, ossia quello di una struttura a piovra, capillare, di vero e proprio apparato organizzato ed esteso, capace di trasferire migliaia di esseri umani da un continente all'altro, per via aerea, marittima o terrestre, senza imbattersi nei controlli alle frontiere dei paesi di destinazione, anche grazie a una potente rete di falsificazione di documenti. Viaggi che possono durare mesi, a volte anni, e che vengono studiati minuziosamente di tappa in tappa per evitare gli accertamenti della autorità.

Accanto al braccio armato, violento e superstizioso, e parallelamente a esso, come solitamente accade nelle organizzazioni di stampo mafioso, si sviluppa quindi il ramo raffinato della mafia nigeriana, capeggiata da uomini altamente formati e preparati, con un livello d’istruzione notevole, che gestiscono enormi capitali in svariati settori e sono in grado di trattare in egual misura sia con i vertici delle altre realtà mafiose che con quelle delle lobby in patria. Sono questi capi carismatici che hanno permesso all'organizzazione di infiltrarsi in Europa e di insinuarsi nel suo tessuto economico, grazie al connubio fatale fra denaro e superstizione, violenza e religione.

E non si può che constatare una certa facilità d’azione di questa realtà che è la mafia nigeriana, e che in Italia è lasciata agire quasi indisturbata.

I pilastri su cui si regge il suo potere, infatti, sono tanto più solidi, quanto più è dimenticata e ignorata dalle istituzioni. La loro principale merce e fonte di guadagno sono le vite di migliaia di persone, di donne e ragazze sempre più spesso minorenni ridotte a meri oggetti, sottoposte a quotidiana tortura e completamente abbandonate al loro destino.

Questo articolo fa parte delle nostre Campagne Informative "Le Ragazze di Benin City" e "Trafficking"

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17 maggio 2015

Essere gay in Africa, un continente sempre più omofobo

Nella Giornata Internazionele contro l'Omofobia, 17 maggio, abbiamo fatto il punto della situazione in Africa. In 38 paesi africani l'omofobia è un reato, in 34 si rischia il carcere, in alcuni anche l'ergastolo, in tre paesi (Mauritania, Somalia e Sudan) è prevista la pena di morte. In questo senso l'Africa può essere considerato il continente più omofobo del mondo.

In Nigeria sull'omofobia è in vigore, da gennaio 2014, una legge restrittiva che prevede fino a 14 anni di carcere per coloro che hanno rapporti sessuali con partner dello stesso sesso. Negli stati del nord della Nigeria, dove è in vigore la sharia islamica, si rischia la pena di morte.

Uno degli argomenti più frequentemente usati nella propaganda anti-gay africana è che l’omosessualità sarebbe un fenomeno "importato" dall'Occidente, contrario ad una supposta tradizione di virilità africana, una teoria che non ha alcun riscontro scientifico. A questo tipo di discorsi si sovrappongono frequentemente ragionamenti omofobi portati avanti da numerose confessioni religiose, ortodossi e islamici soprattutto. Tradizioni antiche e credenze religiose radicate nel tessuto sociale davvero difficili da sradicare.

Non solo in Africa, ma dobbiamo gridare alla vergogna per le decisioni contro l’universo gay che sono state prese in diverse parti del mondo, dobbiamo constatare che l’omofobia non ha confini e trova sempre maggiori forme di resistenza verso la via della sua definitiva cancellazione.

Un vento omofobo che corre dalla Russia, passando per l’India, il deserto americano, risalendo per l’Africa, e farsi una bella passeggiata nei paesi arabi. In ogni parte del mondo, a macchia di leopardo, una gran parte di innamorati sono umiliati dalle leggi e dalle opinioni delle popolazioni, ove avere interesse per persone dello steso sesso, di amore, fisicità, scambio di pensiero, è un reato legale e peggio, morale.

In Africa il problema è più sentito che altrove, ben 34 Stati adottano misure repressive contro i gay, e cosa peggiore, lasciano la libertà ai cittadini di poterli minacciare, pestare e in alcuni Stati come l’Uganda, perfino ucciderli. Non è cosa molto dissimile dal "far-west" nel XIX secolo americano dove si uccidevano neri e indiani così, quasi per gioco. La vita e la morte sono nelle mani del popolo e della folla, oggi è così per i gay in Africa, la loro vita è nelle mani degli etero e della "morale" comune, dove spesso aizzare la folla contro il "presunto" gay o la "presunta" lesbica è solo un modo per togliere di mezzo un avversario o un nemico, o magari può essere solo un modo di vendicarsi.

Leggi che annientano le persone umane, introducendo il diritto penale nelle relazioni sessuali e sentimentali. Un miscuglio di fondamentalismo religioso, pregiudizi e falsità destinate a condannare ingiustamente migliaia di uomini e donne solo per le loro preferenze sessuali.

UgandaDal 2014 è previsto l'ergastolo non solo per chi è gay, ma anche per chi "promuove, sponsorizza o finanzia" l'omosessualità. In Uganda sin da bambini, nelle poche scuole frequentate da figli di persone benestanti, ti insegnano ad essere Maschio e Femmina, i maschi educati a fare gli stalloni, e le femmine educate alla pazienza e alla sottomissione. In Uganda i cittadini sono stati dichiarati liberi di malmenare, fino ad uccidere i gay, una cosa assai simile alla "Fatwa" di islamica memoria, se si uccide un gay non si corrono rischi perché si è protetti dal Governo e dalle leggi.

La legge proibisce anche la promozione dell’omosessualità e richiede ai cittadini di denunciare i gay. Gli omosessuali in Uganda sono spesso vittime di molestie e minacce di violenza, con le organizzazioni dei diritti umani che hanno denunciato anche stupri "correttivi" ai danni delle lesbiche.

NigeriaA gennaio 2014 è entrata in vigore una legge che prevede sentenze fino a 14 anni di carcere per le coppie gay che vivono insieme e pene fino a 10 anni per manifestazioni pubbliche d’affetto tra omosessuali. In alcune regioni del nord, dove la legge islamica si muove parallelamente a quella statale, l’omosessualità si può pagare anche con la pena di morte.

Camerun. Le relazioni omosessuali possono essere punite con sentenze fino a cinque anni di carcere.

GambiaLe condanne per omosessualità possono arrivare a 14 anni di prigionia. È di pochi giorni fa una pesante dichiarazione del presidente "Se sei gay ti taglio la gola".

ZambiaLe relazioni tra persone dello stesso sesso sono bandite fin dalla legge coloniale britannica. Chi viene giudicato colpevole di sodomia può trascorrere in carcere fino a 14 anni.

SenegalChiunque venga sentenziato per "atti impropri o innaturali con una persone dello stesso sesso" deve fronteggiare una condanna fino a cinque anni di carcere.

TunisiaLa sodomia tra adulti consenzienti è punibile con una condanna fino a tre anni di carcere.

MaroccoL’omosessualità è punita con sentenze che vanno dai sei mesi ai tre anni di carcere, ma nei fatti viene tollerata a patto che "chi la pratichi non sfoggi il proprio orientamento sessuale".

AlgeriaPer omosessualità si rischiano condanne fino a due anni di carcere, anche se di fatto le sentenze sono abbastanza rare.

ZimbabweIl presidente Robert Mugabe è conosciuto per aver detto che gay e lesbiche "sono peggio di maiali e cani". Le relazioni omosessuali sono considerate illegali in base a leggi che risalgono ancora all'epoca coloniale. A partire dal 1995, il governo ha portato avanti campagne contro gli omosessuali.

MalawiNel novembre del 2012 il presidente Joyce Banda ha sospeso le leggi contro la sodomia in attesa che vengano discusse dal Parlamento. Secondo il codice penale del Paese, però, gli uomini omosessuali possono essere condannati a scontare pene fino ai 14 anni di carcere. Per le donne, le sentenze per omosessualità sono di cinque anni.

MauritaniaLe persone omosessuali in Mauritania sono esposte al rischio della pena di morte, prevista dalla legge per condanne di omosessualità.

SudanAnche in Sudan l’omosessualità è un crimine punibile dalla legge. La pena capitale è prevista dal "Criminal Act" del 1991. Da allora nulla è cambiato in meglio.

Eccezioni
Il Sudafrica, come si sa, rappresenta un’eccezione. Qui, infatti, alle persone dello stesso sesso è riconosciuto il diritto di sposarsi. Anche in Sudafrica, tuttavia, si è registrato negli ultimi anni un trend allarmante, con un incremento degli episodi di intolleranza e dei crimini omofobi.

Secondo Amnesty, nel 2014 sono state uccise almeno sette persone a causa del loro orientamento sessuale e della loro identità di genere. Secondo una ricerca del "Pew Research Center", più del 60% degli abitanti del Sudafrica ritiene che l’omosessualità non dovrebbe essere accettata dalla società.

Dal 2004 a oggi, solo pochi stati hanno decriminalizzato l’omosessualità. Tra questi ricordiamo Capo Verde, Mauritius, São Tomé e Príncipe e le Seychelles.
(Fonte per dati Africa New Vision)



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